Biotech è il termine utilizzato per indicare sinteticamente un settore innovativo dove operano varie tipologie di imprese. Tutte accomunate dallo sviluppo e dall'utilizzo delle biotecnologie, sebbene in diversa misura e con diversi orientamenti. Il settore include imprese pure biotech, con un core business fatto esclusivamente di biotecnologie. Ma anche altre imprese che svolgono attività più diversificate.

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Sotto il profilo delle applicazioni, il settore si differenzia in quattro principali segmenti. Le imprese red biotech sviluppano applicazioni in campo medico, terapeutico e farmaceutico, e sono la parte preponderante. Le green biotech operano in campo agroalimentare. Le white biotech sviluppano biotecnologie per applicazioni in campo industriale, nelle lavorazioni chimiche e nei carburanti alternativi alle fonti tradizionali. Le GPTA, con attività nel campo della genomica, proteomica e tecnologie abilitanti, campi tra i quali figurano le tecnologie bioinformatiche e i bio-chip. Ovviamente non mancano imprese multi-core, operanti in più di un segmento specifico.

Si tratta di un settore dal potenziale enorme. Non soltanto sotto il profilo delle applicazioni specifiche alla salute dell'uomo, all'alimentazione, alla diversificazione delle fonti energetiche e al relativo impatto sulla sostenibilità ambientale globale, m anche in termini di opportunità economiche, di crescita e di occupazione. Si stima che ogni occupato nel settore biotech genera altri 5 occupati nei settori dell'indotto. Teniamo presente che nei settori tradizionali dell'industria ogni nuovo occupato è in grado di generare un indotto di 1,6 occupati. Un rapporto di 5:1 contro un rapporto di appena 1,6:1. Una potenzialità davvero da non trascurare.

In Italia il settore delle biotecnologie è piuttosto attivo e le performance sono promettenti anche sotto il profilo economico. All'attività delle imprese si affiancano ottimi risultati sul fronte della ricerca e della sperimentazione italiana in questo campo. Risultati che piazzano i nostri ricercatori in posizioni di tutto rispetto nelle classifiche scientifiche internazionali. Solo per citare qualche dato significativo, l'Italia, con l'1,1 per cento della spesa mondiale in R&S e l'1,5 per cento del personale di ricerca, produce il 3,8 per cento degli articoli scientifici e ottiene il 6 per cento delle citazioni.

Sono risultati notevoli se si pensa alle criticità e agli ostacoli che notoriamente frenano la ricerca e l'innovazione nel nostro paese. Come dimenticare, al riguardo, la nostra grande criticità di fondo: la scarsità di investimenti in ricerca, sia sul versante pubblico sia su quello privato. L'Italia investe meno di 20 miliardi di euro all'anno. È meno dell'1,3 per cento del PIL, e poco più del 7 per cento della spesa complessiva per la ricerca in Europa. Che dire? Siamo piuttosto indietro rispetto agli oltre 70 miliardi di euro all'anno della Germania (2,8 per cento del PIL), ai 45 miliardi di euro della Francia (2,3 per cento del PIL), agli oltre 30 miliardi di euro del Regno Unito (1,8 per cento del PIL). Paesi che, da soli, assommano il 60 per cento della spesa totale per la ricerca in Europa.

Nella media di tutti i settori produttivi, a spendere poco in ricerca, da noi sono soprattutto le imprese. Fatto che, secondo l'opinione di molti, è imputabile alle caratteristiche strutturali del nostro tessuto imprenditoriale, dove predomina la piccola dimensione. Il 99 per cento delle imprese italiane sono PMI, e circa il 95 per cento di esse sono micro imprese con meno di 10 addetti. Sta di fatto che in Germania il settore privato contribuisce agli investimenti in ricerca con l'1,90 per cento del PIL. In Francia con l'1,38 per cento. nel Regno Unito con l'1,07 per cento e in Spagna con lo 0,71 per cento. Nel nostro paese le imprese investono in ricerca e innovazione appena lo 0,67 per cento del PIL.

Nel settore del biotech, sorprendentemente, la situazione si inverte completamente. In Italia sono le imprese private a investire più di quanto fanno le università e gli enti pubblici di ricerca. Insomma, sono gli investimenti privati il vero volano dell'innovazione nel biotech. Ciò a ulteriore dimostrazione della vitalità delle biotecnologie in Italia rispetto al resto del tessuto produttivo e imprenditoriale. Le istituzioni pubbliche italiane, in questo settore, investono appena 150 milioni di euro all'anno. Tanto per avere qualche termine di paragone, in Germania vi si investono circa 6 miliardi di euro di danaro pubblico. In Spagna circa un miliardo e 300 milioni. Anche la Norvegia, con 250 milioni di euro di investimenti pubblici, nel biotech spende più di noi. In Italia, le imprese del settore investono circa mezzo miliardo di euro all'anno. Una cifra che ci pone in linea con la media europea. Anche qua, nei paesi di punta si investono cifre superiori. Per esempio, le imprese private francesi del biotech investono 2,8 miliardi di euro. Quelle tedesche 1,2 miliardi. Quelle danesi un miliardo di euro. Non siamo a quei livelli, ma comunque ci difendiamo bene.

Un settore così importante e così promettente, oggi, in Italia, è ostacolato da due principali criticità. La prima è di carattere economico-finanziario: la sotto-capitalizzazione delle imprese. Il capitale di rischio è un ingrediente senza il quale non si realizza l'innovazione. Gli investimenti pubblici sono importanti ma non bastano. È fondamentale che accanto alla spesa pubblica, agli incentivi e agli strumenti pubblici di sostegno delle istituzioni nazionali e comunitarie, si costruisca il pilastro del capitale privato di rischio. Solo così, infatti, le iniziative imprenditoriali possono decollare e dare vita all'innovazione sul mercato.

Il problema della sotto-capitalizzazione, ovviamente, non affligge soltanto il biotech, ma più in generale tutti i settori innovativi. È ben noto che l'innovazione nasce generalmente da iniziative imprenditoriali di tipo start-up, o da spin-off accademici, iniziative caratterizzate per loro natura da un elevato rischio di fallimento, e il finanziamento privato classico (es. i prestiti bancari o le partecipazioni azionarie di investitori istituzionali tradizionali) difficilmente si avvicina in queste situazioni. A fare da volano in questi settori è il venture capital (VC). Il ritardo che accusiamo nello sviluppo di questo strumento pesa, dunque, sulle possibilità e le opportunità di queste iniziative. Anche qua il ritardo non riguarda solo l'Italia, ma più in generale l'Europa. Però, come al solito, i nostri partner se la cavano un po' meglio di noi. Il divario che separa il vecchio continente dagli Stati Uniti è veramente notevole. Gli investimenti annui globali di VC nel settore delle biotecnologie ammontano a circa 6 miliardi di dollari. Oltre 4 miliardi (70 per cento) finanziano imprese americane. Poco più di un miliardo e mezzo (meno del 30 per cento) affluiscono in Europa. La quota di investimenti di VC che arrivano in Italia è veramente minima rispetto ai partner europei. Soltanto l'1,6 per cento dei flussi finanzia le imprese biotech del nostro paese. Quasi il 30 per cento va nel Regno Unito, il 12 per cento in Francia, il 10 per cento in Germania. Anche la Spagna, con il 3,5 per cento degli investimenti VC, si assicura una quota doppia rispetto alla nostra.

La seconda criticità che ostacola le biotecnologie è l'atteggiamento molto diffuso di diffidenza e contrarietà "a prescindere" nei confronti della ricerca e dell'innovazione in questo settore. Atteggiamento che deriva in parte dal sospetto con cui viene visto lo sfruttamento economico dell'innovazione, in parte dalle paure irrazionali che la scarsa conoscenza in questo campo porta con sé. Sta di fatto che, specialmente contro gli OGM, si riscontra un clima avverso di origine prevalentemente ideologica. Clima dal quale, in gran parte, sono scaturite normative che da oltre venti anni ostacolano il libero sviluppo dell'innovazione e della produzione in questo segmento delle biotecnologie. Eppure, il green biotech andrebbe visto come una grande opportunità, di sviluppo e di crescita economica per noi. Le sue prospettive future di espansione sono enormi. E questo per ragioni evidenti a tutti.

Nei prossimi decenni la produzione agricola a livello globale dovrà per forza aumentare. Bisognerà sfamare una popolazione planetaria crescente (saremo oltre 9 miliardi nel 2050), soprattutto nei paesi emergenti e in via di sviluppo. E si dovrà farlo in modo sostenibile, sotto il profilo ambientale, economico e sociale. La superficie coltivabile sulla Terra non è illimitata. Il solo modo per accrescere l'offerta è una maggiore produttività. Per farlo abbiamo bisogno di piante resistenti ai parassiti e alle malattie, in grado di crescere con minore consumo di acqua e in terreni poco ospitali. Perché non possiamo continuare aumentando a dismisura l'uso di fertilizzanti e di pesticidi. Quelli si, veramente nocivi per la salute di chi consuma i prodotti.

Quanti si dicono contrari agli OGM, ignorano o tacciono gli enormi vantaggi derivanti dalla ricerca e dalla loro produzione, anche in termini di competitività della nostra agricoltura. All'inizio degli anni '90 l'Italia era molto avanti con la sperimentazione nel green biotech. I nostri ricercatori erano all'avanguardia dopo avere registrato un successo dopo l'altro. Qualche settimana fa, nel corso di un intervento in Parlamento, la senatrice a vita Elena Cattaneo ha avuto modo di ricordare molte di queste storie di successo. Storie delle quali, dopo che nel 2002 il ministero delle politiche agricole vietò la sperimentazione in campo aperto, non v'è quasi più traccia, se non nella memoria dei protagonisti di allora.

Non ci sono grandi alternative. Gli OGM sono una delle poche, se non l'unica soluzione praticabile. In gran parte del mondo ne hanno preso atto, hanno rimosso gli ostacoli alla sperimentazione e alla produzione con queste tecnologie. Chi pensa di precluderne la strada nel nostro paese, arroccandosi dietro ragioni ideologiche, magari alimentando paure ancestrali infondate, non ha capito quale è il futuro dell'alimentazione mondiale e non si rende conto che così facendo danneggia soltanto l'economia del paese senza sortire alcun risultato.

Non parliamo, poi, del paradosso che si crea quando da un lato si vieta la ricerca e la produzione di OGM sul nostro territorio, e dall'altro lato però si importano e si mangiano quelli prodotti all'estero. Un paradosso analogo a quello che si creò quando l'Italia si precluse la possibilità di produrre energia di fonte nucleare per poi importarla dalla Francia, che la produce proprio con centrali nucleari. Centrali che, in molti casi, sono localizzate non molto distanti dal nostro confine nazionale. Forse è proprio questa la lezione da trarre guardando il settore delle biotecnologie in Italia, le sue potenzialità e le sue prospettive. La storia insegna che noi italiani siamo molto bravi a darci la zappa sui piedi quando si tratta di investire e rischiare in settori di avanguardia. Quei settori che fanno da battistrada all'apertura di nuovi mercati, che offrono prospettive di sviluppo e garantiscono crescita e occupazione in futuro.

Bastano pochi esempi per capire di cosa stiamo parlando: l'elettronica, la chimica e, come si diceva, il nucleare. Ci sono stati momenti nella storia della nostra industria in cui sono state fatte scelte sbagliate, che hanno condizionato in modo determinante la nostra economia, ponendo i presupposti della scarsa competitività di oggi. Scarsa competitività che ci impedisce di tornare a crescere e creare occupazione. Sarebbe meglio apprendere la lezione della storia ed evitare di riviverla ancora. Questa volta, magari, con le biotecnologie.