Sul piano strategico del governo per lo sviluppo della banda ultralarga, c'è un rischio da evitare sommamente: replicare l'errore compiuto nel 1997 con la privatizzazione di Telecom Italia. Allora, anziché separare la rete dalla compagnia telefonica, si fece di tutta l'erba un fascio, regalando a una compagine di azionisti privati il monopolio naturale della rete fissa. Il prezzo di quella scelta sbilenca lo abbiamo pagato a lungo, in termini di concorrenza falsata tra operatori telefonici e minori vantaggi per gli utenti.

Fibra-ottica

Qual è oggi dunque il rischio? Che, nell'implementazione del nuovo progetto pubblico-privato, a Telecom Italia venga di nuovo riconosciuto un ruolo privilegiato, da "parapubblico" con i soldi pubblici, quando è in realtà un'azienda privata come tutte le altre.

La situazione è questa. Il 3 marzo 2015 il Consiglio dei Ministri approva la Strategia Italiana per la Banda Ultralarga: l'obiettivo di fondo è portare almeno l'85% della popolazione italiana a disporre di una connessione a 100 Mbps e la garanzia per la restante parte di una connessione ad almeno 30 Mbps. Lo Stato mette sul piatto 6,5 miliardi di euro, in parte propri e in parte comunitari.

Le risorse pubbliche sono una quota importante ma ovviamente parziale dell'investimento totale necessario, che avrà dunque bisogno di un importante affiancamento dei privati. Ai soldi veri e propri messi in campo dallo Stato si aggiunge poi il possibile ruolo che nella realizzazione del piano potrebbe svolgere Metroweb, la società che ha steso la fibra ottica a quasi tutta la Lombardia e in cui la Cassa Depositi e Prestiti detiene una partecipazione rilevante.

Fin qui tutto sembra pacifico, ma non lo è affatto, come sempre accade quando ci sono di mezzo denari e partecipazioni statali. A Palazzo Chigi c'è una contesa tra due posizioni distinte e distanti.

La prima - più pluralista - vorrebbe una maggiore neutralità nell'utilizzo delle risorse pubbliche, che si traduce soprattutto in incentivi agli utenti per la migrazione verso la fibra ottica e forme di alleggerimento fiscale degli investimenti delle società private nella nuova infrastruttura. La seconda appare invece più accondiscendente nei confronti di Telecom Italia, che quotidianamente rivendica per sé un ruolo di primazia nello sviluppo del Piano. Si legga la recente intervista all'a.d. Marco Patuano per capire i toni, quasi da Marchese del Grillo: "noi siamo noi e voi non siete un..." .

Le due posizioni si scontrano ovviamente anche su Metroweb: se a nessuno appare inopportuno (ma non è certo obbligatorio) che si crei un'unica società della banda larga e che questa, per know how e presenza della CDP, possa essere Metroweb, la differenza sostanziale è tra chi vorrebbe affidarne il controllo a Telecom (pronta a comprare il 51 per cento della società milanese) e chi vorrebbe farne invece un consorzio dei vari operatori, che vi entrerebbero in condizioni di parità.

Ma che argomenti usa Telecom per pretendere che dal monopolio della vecchia rete in rame si passi al monopolio della banda ultralarga? I soliti di sempre: occupiamo 20mila persone, siamo un campione nazionale, gli stranieri sono meno affidabili per la sicurezza della rete e così via. In realtà, tuttavia, Telecom è italiana solo di nome (il controllo è ancora nelle mani di una società, Telco, il 66 per cento della quale è della spagnola Telefonica, che presto sarà sostituita dai francesi di Vivendi; la Banca del Popolo Cinese ha una quota superiore al 2 per cento) e può essere sempre e comunque scalabile da cordate internazionali, con buona pace della retorica sulla sicurezza nazionale.

Sull'occupazione, le istituzioni hanno il dovere di guardare ai grandi numeri complessivi, non alle singole aziende: peraltro, nella partita della banda ultralarga, quel che conta davvero è quanto la nuova infrastruttura potrà "scuotere" l'intera economia italiana. Se il piano avrà successo, i miglioramenti occupazionali si calcoleranno in centinaia di migliaia, forse in milioni di unità, non in briciole.

E affinché la Strategia Nazionale abbia successo, nel breve e nel lungo periodo, bisogna evitare di renderla poco più che un sussidio indiretto a una gloriosa azienda italica, in barba alle regole sulla concorrenza e agli effetti benefici che questa produce. Con i 6,5 miliardi di euro nel piatto della banda ultralarga, il governo Renzi dovrebbe incentivare una competizione tra privati, non replicare l'errore fatale compiuto da Prodi nel 1997.