Tutti gli indicatori di performance sul mercato del lavoro mostrano inequivocabilmente che, in Italia, fra donne e lavoro esiste una relazione piuttosto conflittuale, per usare un candido eufemismo. Il tasso di occupazione delle donne, come mostrato nella figura 1, è al di sotto del 50%, mentre quello degli uomini, seppur non stellare, viaggia attorno al 65%.

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Il gap nei tassi di occupazione è perciò di superiore ai 15 punti percentuali, e peggio ancora è in pratica immutato da metà anni 2000, quando la positiva rincorsa delle donne si è in pratica arrestata. Come si nota nella figura, siamo in pratica più simili a Messico e Cile che non alla media dei paesi europei. Nulla di cui andare fieri, a meno di non voler argomentare che la decisione di non partecipare al mercato del lavoro e di preferire il lavoro domestico sia una scelta ottima ed efficiente date le preferenze individuali delle donne italiane.

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Il secondo grafico mostra, infatti, come l'alternativa al lavoro "sul mercato" sia in realtà il lavoro domestico. Le donne italiane spendono più di 300 minuti al giorno in lavori legati alla casa e alla famiglia, 200 in più degli uomini: un gap impressionante anche rispetto alla media dei paesi OCSE, già sfavorevole al sesso una volta definito debole. E che debole in Italia resta, visti questi dati.

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Ricordiamo che in ogni framework di economia del lavoro la decisione di allocazione del proprio tempo libero risponde agli incentivi di prezzo - in questo caso il salario netto - sottostante al vincolo di bilancio - e all'utilità scaturente dall'opzione alternativa di allocare il proprio tempo libero in altre attività, fra cui - per esempio - la cura della case e dei figli: si lavora nel mercato quando è economicamente più profittevole rispetto ad alternative non di mercato. In modelli più complessi l'allocazione del tempo libero totale dei coniugi fra lavoro sul mercato e lavoro domestico dipende da scelte collettive della famiglia. Nessuno vuole necessariamente dare una lettura dei dati presentati come il prodotto di un modello di coercizione del lavoro, ma semplicemente essi sono il frutto di scelte familiari distorte da un'alta tassazione implicita sul lavoro del secondo percettore di reddito, nella gran parte dei casi donne, e dallo scarso valore atteso del loro lavoro sul mercato. Tasse più neutre e più mercato vanno, perciò, nella direzione di aumentare gli incentivi al lavoro femminile.

Questa constatazione è compatibile fra l'altro con le evidenze empiriche sul gap salariale, che in Italia - così come nei paesi del Sud Europa - è piuttosto basso. La ragione non risiede nella minore discriminazione salariale in sé, ma nel fatto che solo le donne più competenti partecipano al mercato del lavoro: i dati aggregati sul gap salariale nascondono solo il processo di auto-selezione delle donne nel mercato. Infatti, il tasso di occupazione per le meno qualificate è bassissimo, quindi nella media totale il loro peso relativo è piccolo, il che rende il dato sul gap registrato rispetto agli uomini artificiosamente più basso.

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Sono, perciò, le meno qualificate le prime vittime di condizioni di mercato sfavorevoli e di una tassazione che implicitamente sussidia il lavoro domestico femminile mentre il tempo allocato alle attività sul mercato ricade in massima parte sugli uomini. L'aumento sensibile di giovani laureate aiuterà di per sé l'aggiustamento nel lungo periodo, ma come i dati della Figura 1 mostrano, senza politiche che eliminino la distorsione di fondo il rischio è quello di un persistente gap nelle prospettive di impiego delle donne italiane.