Gli attentati di Parigi hanno colpito alcune delle vittime designate dello "sdegno" islamista. I vignettisti di Charlie Hebdo, gli ebrei ammazzati a caso tra i clienti di un negozio kosher e tre poliziotti (una giovane martinicana, un figlio di immigrati italiani, un musulmano di origine algerina) con facce e storie che raccontano tutto dell'orgoglio cosmopolitico della Francia europea e dell'impossibilità di farne la trincea dello sciovinismo religioso cristiano o la prigione d'oltremare dell'umma jihadista.

toutestpardonne

Non è stato però l'11 settembre europeo, l'attacco esterno di un nemico capace di sferrare l'offensiva in territorio straniero, per colpire uno dei suoi simboli. È stata una mattanza in cui l'Europa e la Francia sono costrette a riconoscersi in tutti i protagonisti, nelle vittime come nei carnefici, e a specchiarsi in estraneità fratricide covate sotto la cenere dell'alienazione sociale e incendiate dalla pedagogia del terrore, che recluta martiri a prezzo di saldo nel degrado delle banlieue parigine facendoli esplodere nel cuore profano della République. Dalla guerra asimmetrica alla guerra civile asimmetrica, ispirata, ma non telecomandata dalle centrali islamiste, e affidata all'improvvisazione suicida dei volontari della jihad. L'Europa deve davvero riconoscersi non solo nei Charlie, ma anche nei Kouachi e nei Koulibaly, per riuscire a fermarla prima che si diffonda per l'intero continente con la sua imprevedibile potenza.

Nella manifestazione di sabato scorso a Parigi è emersa una consapevolezza comune, non ancora una strategia comune. L'Europa non ha certo scoperto mercoledì scorso l'esistenza di un problema domestico. Ma è come se avesse timore a ammetterne la natura "radicale". Con gli attentati di Parigi finiscono gli alibi e, a voler essere onesti, anche l'illusione che il rapporto con l'Islam europeo possa tornare a giocarsi su quel misto di ostilità, ruffianeria e appeasement, fra cui continuiamo pericolosamente ad oscillare a seconda che a prevalere sia il registro della correttezza o della scorrettezza politica o di un burocratico realismo "pratico". Sono tre opzioni politicamente nulle, puramente auto-referenziali.

Continuiamo ad attardarci a discutere quanto autenticamente islamica sia la sfida terrorista, finendo per dimenticare quanto sia intimamente e "costituzionalmente" europea la libertà che la sfida minaccia e gli sfidanti disprezzano. È una sfida che chiama direttamente in causa gli islamici che vivono in Europa, non perché anche i jihadisti si proclamano islamici, ma perché la libertà religiosa di cui gli islamici godono è la stessa identica libertà degli "empi" (gli ebrei, gli infedeli, i "crociati"...) che la violenza jihadista sacrifica alla collera di Allah.

È questo un nodo così profondo e problematico nella sua apparente durezza giuridico-formale che non solo gli islamici, ma anche la Chiesa fatica ad accettarlo in tutte le sue conseguenze. Le parole di ieri di Papa Francesco sono state purtroppo molto più che infelici, inquadrando i fatti come se al fondo vi fosse semplicemente un problema di (pure gravissima e inescusabile) sproporzione tra l'offesa di Charlie e la vendetta dei fratelli Kouachi e quindi a scandalizzare fosse la dismisura tra l'illegittimità della azione e quella della reazione, non la violazione del tabù - quello dell'uso politico della violenza religiosa - su cui si fonda la convivenza europea.

È chiaro che Francesco porta la responsabilità di una Chiesa perseguitata, sbilanciata, dal punto di vista demografico, in aree del mondo minacciate dall'espansionismo islamista, entrata ufficialmente, con la sua capitale romana, tra i bersagli dello Stato islamico e dunque comprensibilmente incline a stare diplomaticamente fuori da tutto quel che possa apparire come una guerra di religione. Ma dietro a questa riluttanza a difendere il diritto sacrosanto delle opinioni più discutibili e "offensive" c'è anche una distanza culturale profonda per la grandezza della più borghese e occidentale delle libertà borghesi e occidentali.