logo editorialeLe questioni istituzionali sono tra i temi politici più oscuri e meno appassionanti per l'opinione pubblica. Attorno ad esse aleggia un fumo retorico denso e irrespirabile, che le rende incomprensibili e dunque sospette. La materia è decisamente tecnica. Dunque delle cosiddette "riforme" non è semplice comprendere i meccanismi di funzionamento, né immaginare le possibili conseguenze. La generalità degli elettori – anche dei più politicizzati – pensa che dietro a ogni articolo della Costituzione o della legge elettorale ci sia potenzialmente una fregatura o un doppiofondo che nasconde il vero e inconfessato interesse politico, camuffato da una maschera presentabile, ma meramente apparente.

Nondimeno, come già accadde alla fine della Prima Repubblica, quello delle cosiddette "regole" è diventato il terreno di mobilitazione politica privilegiato e la questione politicamente più dirimente, attorno a cui si strutturano le alternative e le alleanze politiche e prende forma il nuovo spirito dei tempi.

I referendum Segni ebbero una fortuna straordinaria non perché gli italiani si fossero convertiti alla religione maggioritaria, ma perché vedevano nella rottura più radicale dell'ordine politico inefficiente della Prima Repubblica l'alternativa preferibile in via di principio, prima ancora di domandarsi che conseguenze questa avrebbe avuto in via di fatto.

Nella Seconda Repubblica, la questione settentrionale – che aveva e ha un segno prevalentemente economico-sociale – cercò e trovò anch'essa uno sbocco istituzionale, con riforme "federaliste" molto discutibili in termini di merito, ma irresistibili sul piano politico. Tutte le forze politiche, non solo la Lega, si convertirono volenti o nolenti all'idea che per rendere più dinamici i territori occorresse rendere più sovrane le istituzioni politiche territoriali e attribuire ad esse poteri più penetranti di amministrazione e di governo.

La partita che si sta giocando attorno alla riforma del Senato ha le medesime caratteristiche. Il "partito del No" è destinato a perdere malamente, ma non perché tutte le critiche al disegno di legge governativo o ai paletti imposti dal premier siano egualmente irragionevoli, interessate o inconsistenti. Il fatto è che nella guerra della propaganda, in questi passaggi storici, il No è sempre destinato a perdere e il Sì – a prescindere dal suo merito e dai suoi meriti reali – a trionfare spinto da un'esigenza di cambiamento irresistibile. La riforma Renzi è un "colpo alla Casta" e tanto basta per renderla travolgente.

L'ostruzionismo trasversale alla riforma costituzionale non è quindi un ostacolo, ma una rendita per il Presidente del Consiglio. Una "guerra" molto più agevole e popolare di quella che lo vede impegnato e tuttora soccombente sul fronte della crisi economica e delle relazioni europee, dove il suo "tocco magico" stenta a vedersi.

Tutto questo però significa che la riforma del Senato cambierà la politica e smuoverà il Pil del Paese o almeno convincerà i partner europei a essere più flessibili rispetto agli impegni assunti dall'Italia sul fronte della finanza pubblica? Ovviamente no e questo forse non lo sperano neppure gli italiani persuasi che il Presidente del Consiglio faccia benissimo a tirare, in loro vece, un calcio nel sedere ai senatori. Ma il Renzi construens trarrà forza nel suo programma di riforme economico-sociali dal trionfo del Renzi destruens sul piano istituzionale?

È ancora tutto da vedere.

@carmelopalma

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