logo editorialeLa discussione parlamentare sulla riforma costituzionale - e in larga misura anche quella pubblica - segue coordinate del tutto irrazionali e "logiche" prive di qualunque coerenza formale e sostanziale. E lo stesso può dirsi del dibattito che accompagna le prime e tutt'altro che fulminee iniziative dell'esecutivo in campo economico-sociale.

Da una parte c'è chi oppone a qualunque critica sulla qualità e l'efficienza delle riforme proposte la quantità e la sovrabbondanza del consenso, che la maggioranza di governo e, al suo interno, soprattutto il PD e il suo leader riscuotono tra gli elettori e invoca la necessità di corrispondere la domanda di cambiamento che emerge, in modo invero confuso e contraddittorio, dal Paese. In questo caso la logica è la seguente: la riforma - qualunque riforma, anche quelle che riforme non sono affatto - è buona perché chi la propone ha più voti di chi la avversa. È la stessa identica logica che nel ventennio berlusconiano ha legato in modo inscindibile la potenza del Cav. e l'impotenza dei suoi governi, fino agli esiti fatali, anche per la ditta berlusconiana, dell'autoreferenzialità e all'esplosione di quella formidabile bolla di consenso.

Il depistaggio dalla realtà dei problemi e delle soluzioni possibili può essere una strategia elettoralmente efficiente, ma rimane comunque politicamente esiziale. È evidente che l'Italia è un Paese politicamente fragile anche perché nel mercato del consenso il voto degli elettori non "prezza" correttamente la qualità delle proposte politiche ai fini dell'interesse generale.

Ci sono ragioni culturali e sociali complesse alla base di questo fenomeno, che è anche sciocco liquidare in modo moralistico. È ovvio che la politica deve farci i conti, perché nessun politico può immolarsi all'impopolarità, pena la morte politica immediata. Ma farci i conti significa anche comprendere i rischi e non solo la golosissima opportunità di coprire con la foglia di fico di un "cambiamento" trasformistico le vergogne di una politica immobilistica, surrogando le riforme con l'ammuina permanente e le innovazioni con le "novità". Anche questo l'abbiamo già visto, già sperimentato, già pagato. Renzi deve ancora dimostrare di essere all'altezza di questa sfida, ma sta già dimostrando di essere pericolosamente incline alla ruffianeria di successo del suo più famoso predecessore.

Dall'altra parte, c'è un'opposizione ostruzionistica a prescindere, complessivamente persuasa che l'esercizio di responsabilità di governo sia di per sé un "rischio democratico" e che i meccanismi di garanzia, sul piano costituzionale come negli equilibri istituzionali, impongano di fatto la necessaria consociazione tra maggioranza e minoranza: andare avanti insieme, o stare tutti fermi. In caso contrario, golpe! Il fatto che FI stia dentro il discorso delle riforme, in modo peraltro difensivo e opportunistico, non cambia affatto il senso del discorso.

Dal punto di vista sostanziale, questa opposizione - FI compresa, si pensi al referendum contro la riforma previdenziale - fa poi coincidere la "resistenza democratica" con la difesa dello status quo. L'opposizione, anche più della maggioranza, è intrappolata nella trama particolaristica dell'organizzazione del consenso. Non è uno stimolo, né un'alternativa per la maggioranza. È un rumore di fondo, una sorta di inconscio politico che ribolle e non si libera. Non c'è niente e nessuno nell'opposizione parlamentare al governo che serva a qualosa di serio e tantomeno a un discorso di verità.

In questo quadro, la cosa più probabile è che una maggioranza senza alternative e senza concorrenti si accomodi nella vita facile e nella furba routine del riformismo recitativo. Outlook negativo per l'Italia

@carmelopalma

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