logo editorialeNon sono state le toghe rosse, non sono stati i comunisti, non è stato lo spread, non Fini, non Monti e nemmeno Angela Merkel. A decretare la fine del centrodestra berlusconiano è stata l’Italia “moderata” che il 25 maggio ha consegnato a Matteo Renzi, e a quella che è stata prontamente ribattezzata Democrazia Renziana, il quaranta per cento dei consensi. L’ex Cavaliere era indebolito anche un anno fa, eppure alla fine era riuscito a impedire il trionfo annunciato del centrosinistra di Bersani. Cos’è cambiato? È cambiato il Pd, che all’avanzata grillina ha risposto affidandosi all’ex sindaco di Firenze. Il Pdl ha cambiato nome e assetto, ma non sostanza. E per questo ha perso.

È stata, in ultima analisi, l’incapacità del centrodestra di capire quanto la crisi economica continentale stesse scardinando - in Italia come in tutta Europa - un sistema politico ventennale (prima producendo il boom del Movimento Cinque Stelle e poi inducendo la risposta renziana nel partito più abile, per ragioni evidenti, a dotarsi di una nuova leadership) a trascinare Berlusconi nell’inedito ruolo di spettatore di una contesa altrui. E se Forza Italia piange, la concorrenza di centrodestra ha davvero poco da ridere. Angelino Alfano e Pierferdinando Casini pur potendo contare sullo scudocrociato, su Comunione e Liberazione e su fette non inconsistenti dell’ex Pdl, porterà all’Europarlamento solo una manciata di deputati. I Fratelli d’Italia, orgogliosi portabandiera della fiamma e dei “valori della Destra”, nemmeno uno. Va meglio alla Lega, che difatti ha accantonato ogni riferimento a centrodestra o centrosinistra, concentrandosi sulla battaglia contro l’euro e contro l’immigrazione.  

Inevitabile, dunque, che si riaprisse il dibattito sulla rifondazione dell’area alternativa alla sinistra. L’amico Lorenzo Castellani - giovane dottorando presso l’Imt di Lucca con una ricerca sulle politiche thatcheriane, animatore de “La cosa blu” e autore assieme a Santo Primavera di un recente saggio sulla “destra globale” (Pensare per governare, Bonanno editore) - propone dalle colonne virtuali di Formiche.net la convocazione di una “Leopolda di centrodestra” per superare quella che lui definisce la “sindrome del granchio” e provare a fare quel che l’attuale presidente del Consiglio ha fatto nel campo avverso, ovvero “scassare tutto” e ripartire.

Leopolda-Firenze

La ricetta è quella giusta: apertura, rinnovamento, primarie, una nuova classe dirigente, concorrenza, merito, giovani. Il vero nodo è semmai a monte. È il “cosa” si vuole ri-fare e “perché”.

Per impedire il “monopolio renziano” e salvare il bipolarismo, si dice. Obiettivo condivisibile. Ma attenzione: il quadro politico di oggi ci consegna un bipolarismo tra “demolitori” e “riformatori” (contrapposizione che vale per il sistema istituzionale, economico e sociale costruito dal secondo dopoguerra in poi, sia a livello nazionali che comunitario) che trova in Renzi e Grillo i suoi interpreti più efficaci, tagliando fuori i protagonisti del centrodestra. E al bipolarismo non si partecipa per autoinvestitura, non basta dirsi uno dei due poli per esserlo; bisogna essere capaci di interpretare le faglie che si aprono nella società in un dato momento storico e costruirvi attorno un progetto politico che poi attragga consenso (cosa che Renzi e Grillo hanno entrambi saputo fare, ciascuno a suo modo). Il declino di Berlusconi e l’insuccesso di Alfano e Meloni si spiegano in larga parte così: il centrodestra non è più percepito dagli elettori come una categoria politica significativa in quanto tale. È, più in generale, la faglia tra centrodestra e centrosinistra per come ce la siamo raccontata negli ultimi vent’anni a non essere più ritenuta dagli italiani una rappresentazione “credibile” delle dinamiche, delle incertezze, delle aspirazioni che attraversano il Paese. Tanto è vero che l’intuizione vincente di Renzi (così spesso lodata anche in campo avverso) è stata proprio quella di abbandonare l’etichetta identitaria di “sinistra” e addirittura di “centrosinistra” per parlare di cose e non di nomi.

“Nomina sunt consequentia rerum” ha difatti detto il premier, sfoderando una citazione sorprendentemente non tratta da qualche telefilm anni Ottanta. Lo ha detto in merito alle nomine comunitarie, ma è un po’ il succo del suo progetto politico. Dall’altra parte, la confusione di Silvio Berlusconi, ancora convinto di poter mobilitare gli italiani raccontando la sua persecuzione giudiziaria, e di poter fare campagna elettorale con il Ppe di Merkel e Juncker strizzando allo stesso tempo l’occhio alle pulsioni antieuropee e antitedesche di Matteo Salvini, dimostra come il campo del “centrodestra” non riesca a svincolarsi dal passato. 

Dunque, se si decide di riportare la categoria del centrodestra nell’alveo di un sistema bipolare, bisogna essere coscienti del fatto che l’impresa è ardua perché questo bipolarismo parla un linguaggio diverso; ed è ancora più ardua se la si intraprende, come hanno decretato le elezioni, da una posizione di terzopolismo.

E poi, cosa si vuole rifare? Perché se “centrodestra” significava “non-centrosinistra” (e viceversa), oggi che quello schema è saltato, centrodestra può significare tutto e niente. Europeismo o antieuropeismo, liberismo o statalismo, federalismo o nazionalismo, progressismo o conservatorismo. Quali istanze si vogliono sottrarre a Renzi? Quali battaglie ci si vuole intestare? Chi si vuole rappresentare? A chi si vuole parlare?

Castellani elenca alcuni punti di un programma dai contorni precisi: snellimento della pubblica amministrazione, diminuzione della pressione fiscale, liberalizzazione dei servizi pubblici locali. È in effetti la zona su cui meglio si può erodere consenso al Pd. Ma se il centrodestra dev’essere “meno tasse” e “meno spesa pubblica”, si dovrà necessariamente rinunciare al consenso di quel centrodestra sociale e assistenzialista che per anni ha aumentato la spesa pubblica e alzato le tasse. E, per fare altri esempi, se il centrodestra è “valori cattolici” e “difesa della famiglia” si dovrà rinunciare all’agenda delle libertà individuali e dei diritti civili (o viceversa, naturalmente);  se il centrodestra è “federalismo europeo” e “atlantismo” si dovrà mettere alla porta senza tanti complimenti quella destra che guarda con simpatia a Marine Le Pen o a Vladimir Putin. E così via.

Le “divisioni” che Lorenzo lamenta, e che avrebbero lacerato un’area politica potenzialmente maggioritaria, potrebbero in realtà essere una benedizione, la fine dell’illusione che si debba per forza rappresentare tutto e il contrario di tutto in nome di un’identità di gruppo che poi ciascuno interpreta a suo modo. Il che funziona, appunto, solo fin tanto che quell’identità significa qualcosa di per sé.

A meno che non si pensi di poter allestire direttamente un country party che ambisca a sottrarre al Pd renziano il consenso dell’intera società italiana, operazione al momento quantomeno complicata, converrà piuttosto definire un nucleo programmatico circoscritto ma solido da cui ripartire. Ciò significa accettare un iniziale status minoritario, è vero. Ma è anche il modo migliore per selezionare, senza bisogno di liste d’ingresso o di proscrizione, un gruppo dirigente animato da idee e visioni precise e condivise, che vadano oltre esibizionistici afflati identitari (sotto cui spesso, peraltro, si nasconde la mera esigenza di riciclarsi e ricollocarsi).

Per allargare il recinto, insomma, bisogna prima costruirlo ex novo, usando però temi concreti, comunicabili e accattivanti, più che generici richiami ad appartenenze collettive. Solo allora, una volta trovata la giusta forma organizzativa e la giusta leadership, diventa possibile ambire ad ampliare i propri confini e a gareggiare per il governo del Paese.

Insomma, è giusto e doveroso non lasciare al premier e al suo partito il compito di rappresentare da solo quello che per comodità può dirsi “polo riformatore”. Ma “rifare” il centrodestra, nel senso di occupare con modalità e volti diversi lo stesso vasto spazio del vecchio centrodestra, rischia di essere un’operazione improba e in ultima analisi inutile. “Ripensarlo”, ovvero immaginare prima un nuovo spazio, certamente più piccolo ma non per questo meno significativo (anzi), e poi occuparlo con le migliori energie a disposizione, al contrario è un processo che può rivelarsi vincente, e che però ha necessariamente bisogno di essere giocato nel medio-lungo periodo (e proprio in tal senso sembra muoversi la proposta della “Leopolda di centrodestra”).

Fini, Monti, Alfano e Casini: tutti, in modi diversi, hanno cercato di parlare all’Italia “di centrodestra”, hanno tentato di occupare quelle praterie e di conquistare il forziere del consenso berlusconiano; tutti, per ragioni diverse, hanno fallito. Sarebbe un’amara consolazione riuscirci ora, mettendo in campo le energie migliori e le facce giuste, per poi scoprire che la prateria è un deserto e il forziere, una volta aperto, è desolatamente vuoto.