logo editorialeIl mito fondativo dell'Italia costituzionale vacilla: il lavoro, da diritto, è diventato eccezione, ed è un problema che prima o poi sarebbe bene i costituzionalisti si ponessero. E noi con loro, in un percorso di auto-coscienza costituzionale collettivo che ci forzi ad addentrarci nei meandri dell'insensatezza logica sulla quale abbiamo edificato l'intera nostra impalcatura sociale. Per prendere atto, una volta per tutte, che il problema viene da lì: lo strapotere della burocrazia, l'inespugnabilità delle corporazioni, l'arrendevolezza della politica a cospetto di un'aspettativa socio-ingegneristica così gravida di conseguenze.

Le conseguenze sono i sindacati, holding para-democratiche pubbliche che intermediano stipendi, risorse, voti, opzionandoli al mantenimento di sé. Hanno lavorato assai bene per sé in questi anni, ma il business evidentemente è ormai in fase terminale. Il Presidente Napolitano li ha piuttosto esplicitamente indicati come il nemico. Si sono in realtà indicati come il nemico da sé. Il primo maggio 2014, i tre leader hanno sfilato a Pordenone con i dipendenti dell'Electrolux e non hanno trovato nulla di meglio contro cui scagliarsi, se non la modernità. Bonanni se l'è addirittura presa con Facebook e Twitter.

Ce l'hanno con Renzi perché non convoca il solito tavolone dove spartirsi voti e ammuine, il gran polverone fanta-riformatore già pronto per essere poi rimesso sotto il tappeto. Renzi gioca facile a rimetterli al loro posto. Sono parassitari gestori di potere interdittivo, ed è ormai così evidente che anche la rivoluzionaria tardiva Marianna Madia ha potuto prendere atto che le riforme non si fanno con, ma nonostante il sindacato. Il datore di lavoro dei dipendenti pubblici è lo Stato che, al momento, è rappresentato dal rottamatore. Sta a lui decidere quali siano gli obiettivi che l'azienda Stato si pone, e come vadano impiegati, valutati e retribuiti i suoi dipendenti. I sindacati, se vogliono, contribuiscano pure, via mail, ma tavoli anche no.

Si dirà, Renzi fa quello di sinistra che arriva a capire la cosa giusta solo dopo che alla cosa giusta non è davvero rimasta alternativa. A cosa serve il sindacato? di Pietro Ichino è del 2005. Era già scritto tutto lì. Perché in Italia la Fiat di Melfi arranca, mentre in Inghilterra, a Sunderland, un'analoga storia di industrialismo automobilistico ormai fuori mercato si è conclusa con il raddoppio dei posti di lavoro. Lì i sindacati non hanno lottato contro i padroni, la tecnologia che avanza, i diritti acquisiti che si restringono. Non si sono fatti lobbisti di casse integrazioni a vita per posti di lavoro che non sarebbero tornati mai più. Hanno lavorato al cambiamento senza farsi pregare, pur sapendo certo anche loro che non sarebbe stato indolore, che qualcuno ci avrebbe perso per forza, ma che molti di più ci avrebbero guadagnato.

Parliamo di storie di oltre dieci anni fa, storie di modernizzazione fatte da quegli stessi paesi di cui oggi con invidia registriamo i successi. Appianare il ritardo con Germania e Regno Unito è impossibile, ma partire a de-sindacalizzare le politiche del lavoro, del welfare, della gestione amministrativa è necessario. La congiuntura politica è favorevole, lo è anche quella economica, perché le crisi si accompagnano sempre a opportunità. Questo Primo maggio dei senza lavoro ha reso i sindacati insostenibili. A sinistra le cerniere si sono ormai scardinate. Prendiamo questo ancora poco come un già tanto, ché se ci ricordiamo di quel niente che invece ha fatto il rivoluzionario liberale nel passato ventennio, la prospettiva di questo nostro contemporaneo novello Craxi che sfida i sindacati facendosi lui stesso rappresentante dei lavoratori che vogliono lavorare, tutto sommato non appare affatto sciagurata.

@kuliscioff