Dopo l’appello di qualche giorno fa da parte del Capo dello Stato Napolitano, è diventata più accesa la discussione su di un provvedimento di clemenza, quale l’indulto o l’amnistia, per” gestire” il problema del sovraffollamento delle carceri. I dati che ci vengono presentati danno effettivamente la misura di un’emergenza umanitaria, di fronte alla quale è difficile rimanere indifferenti.

Tuttavia il dibattito che periodicamente si ripresenta sull’argomento è quello di di un paese che su questa come su altre questioni è capace di concepire solamente gestioni emergenziali. E’ un dibattito nel segno della solita ipocrisia all’italiana, che pretende di far combaciare la richiesta continua di pene e di sentenze “esemplari” con periodici slanci umanitari. Ci troviamo così con i medesimi partiti che lucrano politicamente una volta sugli istinti cattivisti e la volta dopo sui sentimenti buonisti della popolazione.

Partiti che si fanno trovare sempre sul pezzo ogni volta che c’è da introdurre un nuovo reato, una nuova aggravante, una nuova circostanza di carcerazione anche preventiva – salvo poi a tempo debito prendere la bandiera della clemenza e dei diritti civili. Non stupisce che faccia parte del “gioco” anche la battaglia politica per decidere i contorni dei provvedimenti, tutta giocata non su considerazioni di diritto, ma su richiami emotivi. E allora si chiede di escludere questo o quel reato sulla base della valenza “populista” dell’una o dell’altra proposta. Chi fa più paura alla gente? Il ladruncolo che ti entra in casa, il dirigente che fa falso in bilancio o il cattivo evasore? E così via... Francamente non appaiono affatto infondate le ragioni di chi oggi chiede che si dica basta a questi esercizi di utilizzo discrezionale ed elettoralistico del diritto da parte della politica.

Tuttavia, di fronte alle effettive condizioni delle nostre carceri che si trovano in molti casi al di sotto degli standard concepibili nella nostra società occidentale, l’ipotesi di un “ultimo” provvedimento di clemenza deve comunque essere valutata con attenzione; però essa dovrebbe necessariamente inquadrarsi all’interno di una visione più ampia ed organica. La via maestra potrebbe essere quella di adottare un provvedimento di amnistia o di indulto congiuntamente ad una linea guida che, superando la gestione emergenziale, individui una soluzione strutturale del problema carceri da implementare fin dai prossimi mesi. Serve un impegno del governo almeno su tre fronti che consentirebbero di incidere in modo decisivo sul tasso di detenzione che oggi in Italia è intorno ai 112 persone ogni 100.000 abitanti.

Innanzitutto serve muoversi sui temi della “giustizia giusta”: affermazione del principio dell’inappellabilità dell’assoluzione, velocizzazione dei processi e riduzione dei termini di carcerazione preventiva. Fa impressione notare che solo il 10% dei detenuti sta scontando una sentenza definitiva.
In secondo luogo serve ridurre il numero di reati, depenalizzare i “victimless crimes”, con particolare riferimento ai reati non violenti legati alla prostituzione ed alla droga. Va ricordato che la violazione della normativa sugli stupefacenti rappresenta in questo momento la circostanza di arresto più diffusa. Infine non si può negare come la demografia della popolazione carceraria – per oltre un terzo composta da stranieri  – ponga un problema di “qualità” della nostra immigrazione che andrebbe affrontato anche tenendo conto anche dei fallimenti e delle “best practices” dei paesi che prima di noi si sono trovati a fronteggiare importanti ondate migratorie.

Finora, in sostanza, si è guardato  all’immigrazione come ad un fenomeno che deve essere “subìto”,  in modo più arrendevole o cercando un po’ di contrastarlo, chiudendo un occhio oppure stringendo le maglie dei controlli. L’immigrazione, però, non può essere gestita solo ricercando un punto di equilibrio politicamente sostenibile tra sensi di colpa “umanitari” e sentimenti di “insofferenza”.  Occorre piuttosto che l’Italia sia in grado di “scegliersi” l’immigrazione, secondo i propri effettivi interessi economici. Serve, in altre parole, una politica di immigrazione “selettiva” – sul modello ad esempio di quella australiana -  che sia finalizzata da un lato a colmare necessità effettive del nostro mercato del lavoro, dall’altro all’attrazione di eccellenze.

Un’immigrazione di qualità vuol dire non soltanto una maggiore competitività a livello economico, ma anche nuovi arrivati inseriti nel tessuto sociale e quindi molto meno inclini ad infrangere la legge. Se si sceglierà semplicemente la via del “colpo di spugna e poi ci ripensiamo tra cinque anni” si farà un pessimo servizio al paese.

 

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