logo editorialeNell'ambito della spending review il governo promette tagli profondi e radicali non solo nei cosiddetti enti inutili, ma anche nella rete del nostro "capitalismo locale", cioè nell'insieme di aziende di servizi, formalmente di diritto privato, ma partecipate o controllate da enti pubblici.

Gli enti inutili, che sono inutili o perché non fanno niente, o perché non fanno niente di utile, si possono semplicemente abolire, senza alcun danno per la collettività, ma senza altro vantaggio, se non quello, peraltro non disprezzabile, del risparmio delle spese di gestione. Le aziende controllate dalla politica erogano invece, almeno in teoria, servizi di pubblica utilità e dunque in questo caso da un semplice taglio numerico (meno imprese, meno amministratori, meno dipendenti, meno consulenti...) può derivare un risparmio in termini finanziari, ma non necessariamente un recupero di efficienza e dunque un vantaggio in termini economici. Nel caso di queste imprese, insomma, non si pone solo un problema di entità, ma in primo luogo di qualità della spesa.

In questi anni, le aziende pubbliche e parapubbliche sono servite a trasferire deficit e debito fuori dal bilancio di regioni e enti locali, ad aggirare le norme sulle assunzioni nel pubblico impiego e a offrire poltrone e stipendi alla classe politica locale. Si è trattato di fenomeni in cui il confine tra il malgoverno e il malcostume è andato sostanzialmente dissolvendosi e una gestione consociativa e opaca ha reso indistinguibili le responsabilità delle maggioranze da quelle delle opposizioni.

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D'altra parte, sarebbe illusorio immaginare che il superamento di questo modello comporti il ritorno alle vecchie "municipalizzate" o alla gestione diretta da parte delle giunte politiche locali di servizi assolutamente essenziali per la qualità della vita dei cittadini e per la competitività del sistema paese. Se queste imprese hanno in genere reso servizi più scadenti a prezzi più alti di quelli reperibili secondo logiche di mercato, una gestione direttamente politica sarebbe destinata a peggiorare la situazione e ad aggravare il danno.

Il taglio degli emolumenti degli amministratori e delle poltrone disponibili è dunque un obiettivo positivo in sé, ma non è l'unico, né il principale. Senza una riconversione del modello di affidamento e di gestione dei servizi pubblici, che superi un conflitto di interesse che vede regioni e enti locali nel duplice ruolo di "padroni" (interessati a incassare il più possibile) e di "clienti" (cioè di garanti dell'interesse dei cittadini a spendere meno e meglio possibile), si potrà tutt'al più offrire agli elettori lo scalpo di qualche migliaio di amministratori, ma non rendere ai contribuenti servizi corrispondenti all'onere che essi sostengono. Non è lo stipendio di manager incapaci e raccomandati, ma il peso delle tasse e delle tariffe, in rapporto alla qualità dei servizi erogati, la vera misura dello "scandalo" a cui occorre porre rimedio.

Per far questo occorre liberalizzare, non solo tagliare, privatizzare e non solo riorganizzare la rete delle società pubbliche. Per altro, senza ridurre il perimetro pubblico è impossibile ridurre quello della politica. Il pregiudizio "benecomunista" che lega indissolubilmente la gestione di servizi pubblici a società di proprietà pubblica è destinato a rimettere entrambe, magari in altra forma, nelle mani della classe politica. Insomma, per "cambiare verso" in questo settore serve più coraggio e responsabilità di governo di quella necessaria a far cose che tutti, indistintamente, sarebbero pronti ad applaudire.

@GFLibrandi