L’Europa non è un’area monetaria ottimale, ma dismettere l’euro ci riporterebbe all’epoca dell’interventismo nazionalista. C’è bisogno di un salto in avanti, come quello proposto da Luigi Zingales: un welfare-to-work che sostenga i lavoratori (non gli Stati) e promuova la mobilità.

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L’unione monetaria europea non è un’area monetaria ottimale, lo era ancora meno negli anni della sua istituzione. Secondo un’affermata teoria economica (che si fa risalire comunemente al lavoro del 1961 di Robert Mundell), affinché un gruppo di paesi possa adottare efficientemente una valuta comune, dovrebbero sussistere alcune caratteristiche: libera mobilità del lavoro e del capitale tra le frontiere, flessibilità di prezzi e salari, integrazione dei mercati dei beni e servizi, cicli economici sufficientemente convergenti. La difficoltà maggiore che un’area monetaria deve saper affrontare sono i cosiddetti “shock asimmetrici”, cioè degli eventi che colpiscono una regione dell’area in maniera diversa rispetto alle altre: ad esempio, una crisi dei settori industriali prevalenti in quella regione che aumenti il tasso di disoccupazione. In un caso del genere, un’elevata mobilità del lavoro tra le regioni dell’area monetaria – come quella che ci può essere tra la California e la Louisiana, per dire – consente di assorbire gli eccessi di disoccupazione dello Stato in difficoltà. Già a partire dalla mobilità del lavoro (nonostante gli enormi passi in avanti realizzati nel tempo) l’eurozona è chiaramente un’area monetaria subottimale.

La subottimalità è resa ancora più esasperata dall’assenza di meccanismi fiscali in grado di trasferire risorse verso le regioni in difficoltà. Un punto su cui un liberista accorto come Luigi Zingales batte spesso è proprio l’opportunità di un meccanismo di redistribuzione fiscale tra i paesi membri dell’eurozona. Nel corso di una recente audizione alla Camera dei Deputati, ad esempio, l’economista di Chicago ha sottolineato la superiorità di una battaglia come quella per un “welfare europeo” rispetto alla richiesta di una comunitarizzazione del debito pubblico con l’emissione di eurobond:

Noi non possiamo, a livello europeo, andare a dire “voi dovete pagare i nostri debiti”, perché è una strategia che non funziona. (…) Invece possiamo fare una differenza dicendo: quello che noi vogliamo non è un meccanismo permanente di redistribuzione dal nord al sud, considerato che nessuno al nord vorrà questo meccanismo. Tuttavia un’area comune con una moneta comune deve avere dei meccanismi di stabilizzazione automatica con fondi comuni, quindi meccanismi che assicurino un certo “smoothing” del ciclo economico tra le varie aree europee. Qual è il meccanismo automatico di stabilizzazione migliore che noi conosciamo? Sono i sussidi di disoccupazione; quindi la vera battaglia che noi come italiani dobbiamo fare durante il semestre europeo, è di dire: “Noi vogliamo un meccanismo di assicurazione della disoccupazione a livello europeo pagato con dei fondi europei.

Gli eurobond sarebbero un premio all’irresponsabilità degli stati membri meno virtuosi e, semplificando all’osso, finirebbero per essere un sussidio dei poveri e dei giovani dei paesi virtuosi verso i ricchi dei paesi viziosi. Un sistema europeo di assicurazione sulla disoccupazione aiuterebbe invece chi ha maggiore difficoltà, in entrambe le direzioni: nel biennio 2004-2005 la Germania aveva un tasso di disoccupazione maggiore della Spagna e dunque il trasferimento sarebbe andato dalla Spagna alla Germania. La valenza politica di un meccanismo di questa natura sarebbe enorme, perché darebbe alle istituzioni europee una immagine solidale che oggi non hanno. Calcando la mano, ma neanche troppo, si può dire che il sussidio di disoccupazione europeo starebbe ai lavoratori come l’Erasmus sta agli studenti universitari: mostrerebbe il volto buono dell’Europa, dell’euro e della disciplina fiscale. Peraltro un sistema di sostegno al reddito dei disoccupati legato alla ricerca attiva di un’occupazione sull’intero territorio europeo favorirebbe quella mobilità la cui assenza determina un’asimmetria dell’area euro.

Sappiamo da decenni, da quando l’integrazione europea presa la chiave “funzionalista” sostenuta da Jean Monnet, che ogni passo della ever closer union ha bisogno del passo successivo per stabilizzarsi. Sappiamo dal primo giorno di vigenza dell’euro che senza una politica fiscale “federale” l’unione monetaria sarebbe stata insicura. Nei primi anni del nuovo millennio, il ciclo economico espansivo ha supplito alle debolezze strutturali e ci si è illusi che un mero coordinamento contabile (peraltro applicato in modo blando e discrezionale) fosse sufficiente. Quando la grande crisi si è abbattuta sul Vecchio Continente, i paesi-cicala hanno subito quegli shock asimmetrici e l’Europa ha scoperto di essere a “pessimal currency area”, come disse nel 2011 lo stesso Mundell (che pure era stato fin dal 1969 uno degli ispiratori della moneta unica europea).

Si può tornare indietro alle valute nazionali? Una lettura degli articoli di Riccardo Puglisi e Mario Seminerio - presenti nella monografia che ad aprile Strade dedica all’euro - evidenzia l’insensatezza di chi evoca il ritorno alla lira e alle altre monete. Ma c’è anche altro: smantellare l’unione monetaria significherebbe dichiarare il fallimento del più ambizioso tentativo di de-nazionalizzazione dell’economia continentale. È molto probabile, come ha sostenuto Wolfgang Munchau sul Financial Times, che un’eventuale dissoluzione dell’euro non riporterebbe l’Europa allo stadio di unione doganale e mercato comune del 1998, ma la trascinerebbe in un caos finanziario ed economico fatto di svalutazioni competitive e limitazioni alla libertà di circolazione dei capitali e del lavoro. S’illude chi immagina un continente di monete in competizione tra loro: prevarrebbe il più spinto e distorsivo interventismo nazionalista.

È vero, agli occhi di un’opinione pubblica sfiancata dalla recessione l’euro è apparso come una causa di crisi, per alcuni LA causa. Siamo sempre a Manzoni, purtroppo: la massa va a caccia degli untori che avrebbero diffuso la peste in città e non combatte le vere cause dell’epidemia, in questo sobillata dagli agitatori di piazza. Oggi la sfida di chi vuol riformare l’Unione Europea, per valorizzare il suo ruolo di spazio civile ed economico aperto e competitivo, passa dal consolidamento dell’unione monetaria, attraverso l’implementazione di strumenti nuovi come l’unione bancaria e – appunto - un sistema di trasferimenti fiscali. Una prospettiva di questo tipo non è dietro l’angolo, perché necessita di un ampio consenso politico e di un radicale ridisegno delle politiche fiscali e di welfare nazionali e comunitarie.

Ma la sfida politica è cruciale: la creazione di un nuovo pilastro alla costruzione europea – un welfare to work per l’area euro, un modello assicurativo efficienti per salvare i lavoratori, non gli Stati -  è un obiettivo dalla portata storica, che produrrebbe un salto quantico nel dibattito europeo. Contro la vulgata nichilista degli anti-euro, contro chi vuol dimenticare quel che è accaduto in questo Continente nella prima metà del secolo scorso. Innamoriamoci di questa moneta.

@piercamillo