"Lasciate stare i pensionati", scrivevano ieri Massimo Fracaro e Nicola Saldutti nell'editoriale del Corriere della Sera: "Ci deve pur essere una tregua per chi, dopo anni di lavoro, aspira legittimamente al raggiungimento della pensione". I due autori contestano l'ipotesi del governo Letta di ridurre la spesa previdenziale, e in generale la spesa pubblica, congelando le pensioni sopra i 3mila euro, cioè confermando anche per il 2014 (e forse per gli anni a venire) la non indicizzazione all'inflazione degli assegni previdenziali sopra quella cifra. Nessuno può negare che lo strumento del congelamento (già in vigore negli anni 2012 e 2013 grazie alla riforma Fornero) sia un intervento discutibile, per sua natura emergenziale e poco coerente con i principi della certezza del diritto e dei contratti. Pur tuttavia, non si può contestare che esso riduca nei fatti la portata di una delle maggiori iniquità welfaristiche del nostro tempo: lo squilibrio tra contributi versati e assegni pensionistici ricevuti della quasi totalità degli attuali pensionati italiani.

E' un dato incontrovertibile: costoro ricevono più di quanto hanno dato, beneficiando così di un trasferimento netto di ricchezza tra generazioni. Il peccato d'origine è la riforma pensionistica del 1995 - la cosiddetta riforma Dini - che permise a chi aveva almeno 18 anni di contributi di restare nel sistema retributivo (con la pensione parametrata alle retribuzioni degli ultimi anni) e a chi ne aveva meno di beneficiare di un sistema pro-quota (retributivo per gli anni di contributi pre-Dini e contributivo, cioè basata sul monte-contributi accumulato, solo per gli anni a venire). Ciò ha ritardato di molti anni l'effettivo passaggio dal retributivo al contributivo, che sarà l'unico sistema di calcolo degli assegni previdenziali solo per chi ha versato i suoi primi contributi nel 1996. E' dunque evidente che, al di là degli sforzi compiuti negli anni per elevare l'asticella dell'età pensionabile, il problema principale è rappresentato oggi dall'enorme stock di pensioni e pensionati, alcuni dei quali hanno peraltro lasciato il lavoro molto prima dei sessanta anni (inclusi i casi-limite delle baby pensioni).

C'è tuttavia il risvolto della medaglia. Stiamo assistendo negli ultimi tempi ad un accanimento fiscale focalizzato soprattutto sui consumi e sul patrimonio: Iva, accise, imposte di bollo, tassazione degli immobili. Lo Stato italiano prova a far quadrare i suoi conti sgangherati estraendo ricchezza dai cittadini, grattando i loro risparmi. Di questa stretta fiscale, i pensionati (tutti, non solo la minoranza che percepisce più di 3mila euro mensili) sono tra i più danneggiati. C'è poi un fatto ulteriore, che riguarda l'avvitamento su se stessa di una società declinante: i pensionati sono oggi in molti casi la più grande agenzia di welfare familiare di cui possano godere gli under 40 italiani. Prestatori di ultima istanza, erogatori di sussidi privati di disoccupazione, garanti di mutui per i loro figli o nipoti, badanti di bambini e di grandi vecchi, creditori di attività impreditoriali: i pensionati, anche quelli con assegni generosi, non sono una specie aliena che occupa e opprime la nostra società, ma un ingranaggio cruciale di quel motore stanco e senza benzina che è l'economia italiana. Il punto cruciale, che rende accettabili interventi sugli assegni previdenziali, è capire cosa s'intende fare con le risorse "sottratte" ai pensionati. Se il congelamento è un tentativo disperato di raccattare qualche miliardino di euro per bilanciare una spesa pubblica che purtroppo continua ad aumenta in automatico, nonostante i tanti tentativi più o meno riusciti di razionalizzazione degli ultimi due decenni, allora esso sarà l'ennesima patrimoniale sulle famiglie italiane o comunque su alcune di esse. Se ogni euro risparmiato sulle pensioni finirà nella riduzione della tassazione del reddito da lavoro e d'impresa, avrà avuto molto senso. E' il governo che dovrebbe fare chiarezza a riguardo: la mera manutenzione dei conti pubblici per restare sotto la soglia del 3% del rapporto deficit-Pil non è un obiettivo in sé, da perseguire a botte di tasse e patrimoniali palesi o occulte.

@piercamillo