logo editorialeRenzianamente, si potrebbe liquidare il suo governo con un "Mogherini chi?". Ma l'esecutivo che il capo del Pd ha messo in piedi è migliore di quello che s'annunciava, e della carrellata di nani e ballerine, grand commis e grandi nomi, raccomandati e auto-imbucati, riservisti della Repubblica e "democratici di relazione", simboli e maneggioni dell'album di famiglia della sinistra à la page, di cui per giorni i media hanno parlato, in parallelo con Sanremo e più o meno allo stesso modo.

Ci siamo scampati i Gini Strada e i Baricchi, i Moretti e i Farinetti, gli elefanti del leftismo post-piciista e dell'antagonismo politicamente corretto. Abbiamo invece un governo iconografico, che paga dazio ai vincoli che il segretario Pd si è autoimposto – il conformismo rottamatore, il donnismo e il giovanilismo di maniera – e a quelli che gli ha imposto Alfano e che sono di segno opposto, cioè continuista e reducista, sia in senso lettiano che post-berlusconiano.

È un governo fatto dai partiti, per quello che i partiti sono oggi in Italia, compreso il Pd, l'unico partito degno di questo nome, che però non si risparmia neppure nel giorno della formazione del governo da parte del suo segretario il melodramma di una quasi-scissione, guidata da uno dei tre competitor delle primarie. In tutta Europa, però, al governo del Paese vanno gli uomini e le donne di partito, perché quello esecutivo è un potere distinto dal legislativo, ma non "neutrale" e certamente non "apartitico". In Europa, in genere, le cose funzionano meglio perché sono migliori i partiti, non perché sia diverso il metodo.

Il limite di fondo del governo non è nella qualità dei ministri, che si giudica comunque ex post, non ex ante. Anche Emma Bonino, quando Pannella vent'anni fa la impose come commissario europeo contro Napolitano a un Berlusconi recalcitrante, era una Mogherini poco più che quarantenne, una donna di partito molto militante scandalosamente opposta a un monumento della sinistra molto istituzionale. Poi è diventata "la Bonino" che conosciamo e a cui auguriamo alla Mogherini di assomigliare.

Ci sembra che la debolezza dell'esecutivo non riguardi comunque la squadra, ma il gioco, che il premier intende giocare. In che misura il governo del sindaco sarà il governo della Leopolda (e delle prime, più che dell'ultima)? In che misura e come demolition man, oltre a schiantare avversari politici, governi amici e mammasantissima della sinistra italiana, vorrà anche rottamare le cause strutturali e funzionali del declino italiano – non solo di quello economico, ma anche di quello civile – e che sono tutte racchiuse nel rapporto malato tra politica e consenso? Saprà pronunciare "i no che aiutano a crescere", o continuerà a dispensare i sì che condannano a decrescere un paese accartocciato attorno ai propri difetti?

La sfida di Renzi è tutta qui e dai suoi esiti dipenderanno anche quelli del negoziato che dovrà intavolare a Bruxelles, dove potrà chiedere all'Europa di cambiare registro solo se saprà dimostrare che anche l'Italia è disposta a cambiare il proprio.