Per vent’anni lo scontro sull'articolo 18 è stato così totale da suscitare l'impressione che contenesse la totalità dei problemi da risolvere. Non è così. L’Italia rimane un Paese con bassa occupazione, bassa produttività e bassi salari. Tutti sintomi di una malattia che ha cause in tutto o in parte diverse dalla rigidità del mercato del lavoro.

Palma Renzi sito

Per oltre vent'anni la difesa moralistica dell'articolo 18 ha avvelenato la politica italiana, imprigionandola in uno scontro che ha lasciato sul campo solo vittime e nessun vincitore.

A destra, ha frustrato le ambizioni liberali della destra berlusconiana, che, dopo il 2002 e la vittoria di Cofferati al Circo Massimo, ha smesso di affrontare il tema e ha iniziato a girarci oziosamente attorno. A sinistra, ha condannato il fronte cosiddetto progressista a quella militanza insieme "rivoluzionaria" e "conservatrice" (secondo la lectio berlingueriana), che ha costretto per decenni i dirigenti post comunisti, anche dopo la caduta del Muro e lo scioglimento del PCI, a cercare con visibile imbarazzo il sole dell'avvenire nei reliquiari ideologici del movimento politico e sindacale.

Nella guerra intorno all'articolo 18, non come istituto di diritto, ma come Sacro Graal dei diritti dei lavoratori, trovarono modo di schierarsi anche le truppe sbandate del brigatismo rosso, prima del definitivo rompete le righe, ammazzando Massimo d'Antona e Marco Biagi, accusati entrambi di volere – uno da sinistra, l'altro da destra – manomettere il sistema delle tutele.

Il presupposto dei contrari a qualunque riforma era che il mercato del lavoro fosse eticamente troppo sensibile per funzionare come un vero mercato e che le uniche garanzie per i lavoratori fossero quelle in grado di assicurare la continuità dell'impiego. Insomma, l’occupazione come forma di protezione sociale, secondo una logica che consegna a un unico strumento obiettivi - l'efficienza del mercato del lavoro e quella del sistema delle tutele - che nelle economie avanzate e nei moderni sistemi di welfare non possono che essere distinti e affidati a strumenti diversi, per non andare in cortocircuito.

L'articolo 18, peraltro, nei suoi effetti reali è diventato presto un caso da manuale di eterogenesi dei fini. Concepito come meccanismo protettivo e inclusivo, ha finito per divenire un dispositivo discriminatorio ed escludente, che segmentava il mercato del lavoro secondo linee marcatamente generazionali e di genere, e inaugurava una nuova esplosiva dialettica di classe non tra capitale e lavoro, ma all'interno del mondo del lavoro tra figli e figliastri, garantiti ed esclusi.

La salvaguardia universalistica della tutela reale era diventata da anni una rendita particolaristica, di cui era titolare una minoranza di occupati, destinata a diventare sempre più esigua, ma l'articolo 18 continuava a conservare politicamente una valenza dirimente, da principio spartiacque tra civiltà e barbarie, anche grazie a una giurisprudenza che interpretava in senso sempre più espansivo l'ingiustificabilità dei licenziamenti individuali.

Alla storia paradossale dell'articolo 18 – che peraltro il sistema produttivo aveva trovato infine il modo di neutralizzare ed eludere, con costi pesanti sia in termini di efficienza che di equità – appartiene anche la sua conclusione, con una rottamazione "da sinistra" inaspettata, ma a ben guardare inevitabile, proprio perché da sinistra era stato eretto il muro a difesa del suo valore non negoziabile e solo da quel lato avrebbe potuto davvero collassare.

In questo processo ha evidentemente pesato il ricambio culturale e generazionale della leadership e dell'elettorato della sinistra italiana. Renzi e milioni di elettori PD sono più giovani dell'articolo 18 (che vide la luce nel 1970) e dal punto di vista occupazionale sono "nativi-flessibili", più sensibili alla seduzione dei diritti e delle opportunità che all'illusione del posto fisso. Anche per questo – oltre che per la prudente (o rinunciataria?) scelta del doppio regime che fa salvi i diritti degli attuali occupati con il vecchio contratto a tempo indeterminato – alla fine i feticci della tutela reale e della reintegrazione sono alla fine caduti.

Lo scontro sull'articolo 18 nel corso di questi anni è stato però così totale da suscitare l'impressione che contenesse davvero la totalità dei problemi che l'Italia avrebbe dovuto risolvere per tornare a crescere e a creare lavoro. Non è evidentemente così.

Il superamento dell'articolo 18 per i nuovi contratti a tutele crescenti e gli incentivi per la sottoscrizione di nuovi rapporti a tempo indeterminato hanno lievemente migliorato la situazione occupazionale, soprattutto in senso qualitativo, ma non hanno guarito, né avrebbero potuto, un Paese afflitto da una sindrome di bassa occupazione, bassa produttività e bassi salari. Tutti sintomi di una malattia che ha cause in tutto o in parte diverse dalla rigidità del mercato del lavoro, di cui occorre occuparsi con altrettanta, se non maggiore radicalità.

Il legame tra crescita e occupazione va affrontato con riforme che rendano più aperto e concorrenziale il funzionamento dei mercati, leghino in misura più efficiente i salari all’andamento della produttività e redditività del lavoro, soprattutto al Sud, e aggiornino i modelli contrattuali, aprendo in modo deciso e anche sostitutivo alla contrattazione decentrata (aziendale, settoriale e territoriale).

Non può ripartire il lavoro, se non ripartirà l’Italia, se un pesante disincentivo fiscale, regolatorio e burocratico all’attività economica continuerà a gravare, non solo psicologicamente, su investitori e imprese e se continueranno a essere avanzate e soddisfatte richieste di protezione corporativo-protezionistiche, che non leniranno, ma cronicizzeranno l’affanno di un Paese che, anche per questo, continuerà ad apparire assai poco business friendly.

L’economia italiana, per tornare a funzionare e a produrre, con nuovi profitti e nuovo lavoro, ha altri “articoli 18” da rottamare e continuismi da interrompere. Ne affrontiamo alcuni nella monografia di questo numero di Strade, insieme a due illusioni che tornano prepotentemente alla ribalta: quella dell’exit strategy previdenziale dal problema occupazionale (per far lavorare i giovani, basta pensionare prima i vecchi, no?) e del reddito di cittadinanza M5S style, inteso non come strumento di tutela, ma come diritto politico a uno stipendio fiscale.

Insomma, se il Jobs Act è un importante passo avanti, ora occorre proseguire sulla stessa strada. Non fermarsi, né – peggio – tornare indietro alle vecchie illusioni “miracolose” del reddito senza lavoro o della cosiddetta staffetta generazionale.