E' possibile immaginare cosa sarebbe stato del nostro paese se non avessimo aderito alla moneta unica? I numeri, soprattutto quelli sui conti pubblici, parlano chiaro: l'Italia è stata letteralmente salvata dall'euro e dalla riduzione della spesa per interessi che è seguita alla sua introduzione. Un beneficio indiscutibile, che è stato gettato al vento durante il decennio successivo dalla politica italiana, che ora cerca capri espiatori.

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Invece di spendere il proprio tempo e il proprio impegno per proporre soluzioni realistiche ai problemi concreti della crisi, molti politici cercano capri espiatori da offrire in pasto all'opinione pubblica e ai cittadini. La cosa non stupisce più di tanto. È il portato di uno short-termism ormai prevalente. È il male della nostra epoca (non solo per la politica), questa ossessione per i risultati immediati, anche se marginali, che fa perdere di vista obiettivi e risultati, anche importanti, di lungo termine.

E questo atteggiamento trova spesso complicità nell’opinione pubblica, che è disposta ad accettare la soluzione facile, immediata, a portata di mano, e rifiuta invece le soluzioni vere, quelle adatte alle problematiche complesse della realtà, ma che presentano percorsi irti di difficoltà e sacrifici. E un capro espiatorio è diventato, nell'ultimo scorcio della crisi economica, l'euro. Ciò è tanto vero che l'ipotesi di una uscita del nostro paese dalla moneta unica potrebbe diventare l’argomento principale delle prossime campagne elettorali, a cominciare dalle elezioni europee di maggio.

Sono sempre più numerosi non solo gli esponenti politici, ma anche gli intellettuali e gli economisti che puntano il dito contro la scelta, fatta a suo tempo, di entrare nella moneta unica. Si sostiene che avremmo dovuto tenerci la lira, per conservare la nostra competitività negli scambi con l'estero, per fare crescere di più la nostra economia, soprattutto per mantenere la sovranità monetaria, considerata una sorta di bacchetta magica in grado di metterci al riparo dalle crisi finanziarie. In poche parole, si diffonde sempre di più l’opinione che la scelta di adottare l’euro fu una scelta sbagliata e che è arrivato il momento per l’Italia di tirarsene fuori.

Ma cosa accadrebbe se oggi l’Italia uscisse dall’euro? Fare previsioni di scenari futuri, specialmente in questa epoca turbolenta, è come attraversare un terreno minato: non è possibile tracciare a priori percorsi certi e univoci. E, come sappiamo, chi propone l’uscita dall’euro non ha certo in mano una palla di vetro. Perciò, nel migliore dei casi, sta proponendo al paese una scommessa rischiosa, della quale non ha ben chiare le conseguenze in caso di fallimento.

Cosa ben diversa, invece, è chiedersi cosa sarebbe accaduto se a metà degli anni ’90 l’Italia non avesse proprio aderito alla moneta unica. Sia ben chiaro, nemmeno una simile analisi contro-fattuale è in grado di darci risposte facili e certe. Tuttavia, se focalizziamo l’attenzione su un solo aspetto, quello importantissimo della finanza pubblica, i dati a disposizione suggeriscono chiaramente che la scelta di entrare nell’euro non fu semplicemente azzeccata: fu un vero terno al lotto. Per rendersene conto basta guardare il conto economico delle amministrazioni pubbliche dal 1996 al 2011.

Una prima cosa emerge da questa analisi: l'ingresso nell'euro fu il fattore decisivo per il riequilibrio dei conti pubblici. Senza l’ingresso nell’euro saremmo andati incontro a una crisi del debito pubblico già 15 anni fa. Entrare nell’euro significò, subito, una riduzione della spesa per interessi sul debito. E proprio ai risparmi di spesa per interessi è dovuta, in larga parte, la riduzione del disavanzo pubblico dal 7 per cento circa del 1996 a meno dell'1 per cento del 2000. Il contributo delle maggiori entrate fiscali fu tutto sommato marginale. Il maggiore gettito fiscale conseguito nel 1997 fu poi quasi totalmente restituito negli anni successivi.

Il grosso dello sforzo fiscale in Italia avvenne all’inizio degli anni ‘90, in concomitanza con l’uscita della lira dal vecchio Sistema Monetario Europeo (SME). Quando l’Italia cominciò il vero e proprio percorso di riequilibrio dei conti il deficit si attestava ancora intorno al 7 percento. Molto distante, quindi, dai parametri di Maastricht. Quanto ai risparmi di spesa primaria, essi furono nel complesso poco più che trascurabili. I tagli di spesa riguardarono per lo più la spesa in conto capitale e gli investimenti pubblici. Il moloch della spesa corrente primaria non venne neppure intaccato. Nello specifico, la figura 1 mostra in che misura, e secondo quale articolazione temporale, risparmi di spesa e maggiori entrate hanno contribuito alla riduzione del disavanzo pubblico (il tutto misurato in punti di PIL) per ciascuno dei quattro anni in cui si è realizzato il riequilibrio dei conti (1997-2000).

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Nella figura 2 si illustrano i risparmi di spesa cumulati e le maggiori entrate cumulate del quadriennio 1997-2000. La riduzione della spesa per interessi ha contribuito per oltre l’80 per cento al riaggiustamento dei conti, le maggiori entrate per il 14 per cento e i risparmi di spesa primaria solo per il 5 per cento. Alla luce di questi risultati è addirittura improprio chiamare “risanamento” della finanza pubblica italiana quello che, invece, è stato un riequilibrio dei conti ottenuto solo grazie al dividendo dell’euro.

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Ma c'è anche altro che emerge dall’analisi dei conti pubblici: nel periodo successivo al riaggiustamento, cioè nel 2001-2011, la spesa corrente primaria è ulteriormente cresciuta in rapporto al PIL, in misura tale da compensare completamente la riduzione avvenuta sul fronte della spesa per interessi (figura 3). In altri termini, dopo essere entrati nella moneta unica ci siamo concessi il lusso di gettare al vento il dividendo dell’euro con nuova spesa corrente.

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Le conclusioni di questa sintetica analisi sono due. Anzitutto l’ingresso nell’euro è stato decisivo per mettere in sicurezza i conti e conseguire un equilibrio di finanza pubblica (anche se precario) con il quale abbiamo tirato avanti per oltre un decennio. In secondo luogo, fino a oggi, la spesa corrente primaria nel nostro paese si è dimostrata di fatto incomprimibile e incontenibile. E sotto questo profilo i nostri conti pubblici attendono ancora un intervento di radicale risanamento.

Se questa storia ha una morale da suggerire, non è certamente quella dell’uscita dall’euro.