Abbiamo l'abitudine di pensare che la colpa o il merito di quel che avviene in un certo anno sia di chi governa in quel momento. E' un andazzo antico: non solo gli attori politici prediligono i provvedimenti di breve periodo, ma sono comunicativamente penalizzati coloro che provano a lavorare per il medio-lungo.

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Uno degli sport nazionali italiani è la ricerca del capro espiatorio. A una sommaria e superficiale analisi dei (tanti) guai segue la gara a chi trova il colpevole più comodo, solitamente quello più a portata di mano: l'untore ideale. E' un'operazione molto utile per la psiche collettiva, perché serve a scagionare la grande massa, dal semplice cittadino alla gran parte dei politici.
Avviene con la recessione attuale, per la quale si pone il problema di scegliere su chi gettare la colpa dei dati del PIL (calato anche nel 2013 di circa l'1,8% e del 2,6% nel 2012 per restare all'ultimo biennio), della disoccupazione (al 12,7% ormai, al 41% quella giovanile), ed è qui che si vede quanto sia purtroppo basso il livello di competenza degli italiani, ma ancora più quello dei media, soprattutto quello dei social media, dei blog, dei siti che in modo più o meno artigianale si occupano di economia e politica.

Una vulgata italica prevalente è quella di addossare al governo Monti, in carica da novembre 2011 ad aprile 2013, la responsabilità intera per i dati economici del 2012 e del 2013. Anche senza addentrarci in considerazioni sociologiche su quanto il mondo sia più "veloce", quanto si pretenda che ogni riforma o ogni richiesta abbia realizzazione "adesso", questo andazzo è antico, ed è una delle cause dell'inefficacia della politica e dei governi in Italia: non solo gli attori politici prediligono i provvedimenti che guardano al breve periodo, ma sono comunicativamente penalizzati coloro che provano invece a lavorare per il medio-lungo.
In questo quadro si collocano gli anni, all'incirca dal 1968 al 1992, di enorme clientelismo, di approvazione di grandi elargizioni immediatamente disponibili, di rinnovi dei contratti pubblici con aumenti superiori alla crescita del PIL, di tutte quelle misure che paghiamo oggi con gli interessi sul debito accumulatosi nonostante il raggiungimento di un avanzo primario, proprio per l'effetto "palla di neve" di interessi che provocano altro debito. Chi ha osato andare controcorrente – citiamo i casi dei governi tecnici Ciampi e Monti – è stato esposto al pubblico ludibrio.

Ma sarebbe possibile produrre riforme che abbiamo effetti nel breve termine? Sarebbe possibile assistere ad una stagione di riforme che abbiano effetti nel lungo periodo, ma per le quali la popolazione capisca il senso dei sacrifici iniziali?

Sul primo punto, il più difficile, sulla possibilità cioè di riforme con effetto immediato o quasi, siamo svantaggiati strutturalmente. L'Italia è un Paese lento per definizione, soffriamo le recessioni e godiamo delle riprese in ritardo rispetto agli altri Paesi: il grande stock di risparmio, le rigidità legislative sul lavoro rimandano le conseguenze più acute delle crisi sulla popolazione, l'abbiamo visto non solo nel 2009 ma anche nel 2001-2002, e tuttavia sono gli stessi elementi che impediscono una vera ripresa, ovvero la resistenza nel rischiare, rifugiandosi nella rendita, la ritrosia di assumere, perché sì, l'articolo 18 è un ostacolo. A tutto questo si aggiunga la macchina dello Stato e la sua lentezza anche nell'applicare leggi già approvate.
Rispetto ai Paesi più veloci per eccellenza, USA e Regno Unito, ma anche Svezia, manchiamo di quella affidabilità che ci consentirebbe di fare operazioni anche spregiudicate come momentanei aumenti del deficit per permettere sgravi fiscali, come fece la Svezia del premier conservatore Reindfeldt, o svalutazioni e provvisori stimoli monetari (come in USA e Regno Unito) che non potremmo permetterci neanche se fossimo dotati di sovranità monetaria, perché soggetti al sospetto di moral hazard, vera ragione per cui viene ostacolata la creazione di eurobond.

Il secondo punto coinvolge la volontà e la maturità di classe politica ed elettorato: l'elettore è dotato di cortissima memoria economica, difficilmente la responsabilità per un dato economico viene fatta risalire più indietro di un anno. In Italia, in particolare, questa "miopia" è molto accentuata. Non che altrove siano messi meglio: Margaret Thatcher ebbe un crollo di popolarità quando implementò le politiche restrittive volte a sconfiggere l'inflazione nel suo primo mandato, e fu salvata dall'occupazione delle Falkland, oltre che dalla strategia suicida laburista di sbilanciarsi a sinistra. Le conseguenze positive delle sue politiche, infatti, emersero solo dopo anni, in parte per le elezioni del 1987, e soprattutto negli anni '90. A beneficio di Tony Blair.
In Germania l'approvazione di Hartz IV nel 2003-2004, con i suoi tagli al generoso sistema di sussidi, ad opera di Schroeder fu accolta malissimo dalla sua base elettorale, tanto che la SPD non si riprese più, e rimane oggi lontanissima dalle percentuali di un tempo.

Quello che invece veramente distingue questi casi da quello italiano è che lì la leadership politica ha avuto il coraggio di intraprendere riforme necessarie anche a costo dell'impopolarità. Ma questa riflessione interseca quella – cruciale per un paese a democrazia matura – dell'etica della responsabilità e delle scelte pubbliche.