L'Italicum è la peggiore riforma possibile, a eccezione di tutte le altre che il Parlamento potrebbe approvare o la Consulta ritagliare, secondo lo schema inaugurato con la costituzionalizzazione forzata del Porcellum. Ma il vero rischio per Renzi è di rivenderla a un'opinione pubblica impaziente con un sovrappiù di ruffianeria antipolitica e di condiscendenza verso l'egemonia culturale del "rottamatevi tutti".

L'Italicum, la peggiore riforma possibile, a eccezione di tutte le altre

La proposta su cui Renzi e Berlusconi esibiscono una felice e spericolata sintonia è la peggiore riforma possibile, a eccezione di tutte le altre, che questo Parlamento potrebbe rebus sic stantibus contrapporre all'inciucio della strana coppia, per non dire di quelle che una Corte Costituzionale disinvoltamente interventistica potrebbe tornare a ritagliare dai testi approvati dal Parlamento, secondo lo schema inaugurato con la costituzionalizzazione forzata del Porcellum.

Se infatti la resistenza all'accordo tra il segretario del PD e il capo di FI è quella che corre lungo la strada che unisce Grillo e Alfano, Cuperlo e Salvini, Grillo e la Meloni, tutti intenzionati a resuscitare una legge elettorale sostanzialmente primo-repubblicana per intralciare i piani dei padroni del gioco bipolare, l'Italicum, con i suoi corollari costituzionali (fine del bicameralismo perfetto e riforma del Titolo V), costituisce oggettivamente un passo avanti o almeno un freno alla marcia indietro, che il dibattito sulle riforme rischia di innestare, spinto dal latinorum ambiguo della Consulta e dei giuristi di corte e dall'imbroglio "preferenzialista" dei professionisti di palazzo, che vogliono restituire al popolo il "diritto di scegliere", cioè di arruolarsi nelle truppe mercenarie della democrazia di scambio, tornando a barattare direttamente il voto con il favore e il diritto con il guadagno.

I rapporti di forza interni al Parlamento non sono allineati a quelli esterni e dunque la guerra alla riforma è tipicamente asimmetrica. Il pacchetto Renzi-Berlusconi riscuote un favore evidentemente maggioritario in un'opinione pubblica, che tende a premiare in modo preconcetto qualunque "tutto cambi", anche quando dissimuli un inconfessabile "perché niente cambi". Nondimeno, il passaggio parlamentare, malgrado la conferma dell'accordo ufficializzata ieri, rimane colmo di insidie e l'arma del voto anticipato, che il segretario del Pd ha poggiato sul tavolo delle trattative, potrebbe servire assai di più al suo "socio" Berlusconi, cui la legge approvata dalla Corte va comunque benissimo (al Senato entrerebbero tre soli partiti e il Cav. diverrebbe per il Pd, stante l'indisponibilità di Grillo, un imprescindibile alleato di governo). Per Renzi invece un nuovo governo di grandi intese rappresenterebbe in sé una sconfitta, anche se il Pd alle prossime elezioni dovesse rimanere, come è presumibile, il primo partito italiano.

Renzi è dunque oggi il giocatore più forte, ma anche il più esposto a molteplici pericoli. È (e per certi versi si è) intrappolato in una situazione che non ha più exit strategy laterali. Può uscire solo in avanti, conservando il sostegno di Berlusconi e portando a casa una riforma che lo incoroni protagonista del change. Se il Cav. lo mollasse in dirittura d'arrivo, come fece ai tempi della Bicamerale con D'Alema, l'incendio di ostilità e incomprensioni appiccato a sinistra contro la riabilitazione del Caimano finirebbe per bruciare proprio il segretario del PD.

Questo spiega tante cose: perché Renzi abbia riconosciuto a Berlusconi un potere di veto pressoché assoluto sulle modifiche al pacchetto concordato, in cui giustamente ritiene di essere riuscito a imporre l'essenziale, cioè il "doppio turno eventuale"; perché non abbia concesso nulla ai suoi alleati esterni e avversari interni, che ha giudicato in genere più propensi a sabotare l'accordo, che a migliorarne il contenuto; perché la tabella di marcia sia diventata così decisiva, non solo sul piano simbolico (i tempi lunghi e gli "approfondimenti" non giocano mai a favore delle riforme). Così si spiega anche perché Renzi abbia preferito l'eccesso al difetto di durezza, fino a dimostrarsi sbrigativo e sommario anche su alcuni correttivi (come quelli ragionevoli sulla misura degli sbarramenti intra e extra coalizionali), che non avrebbero messo in discussione l'impianto della riforma, tenendola però al riparo dagli eventuali "aggiustamenti" della Consulta.

 

La ruffianeria antipolitica di Renzi? Una strategia furba, non intelligente

Se però è la forza esterna e il favore dell'opinione pubblica a consentirgli di esercitare una pressione interna, a partire da quella necessaria per piegare i suoi gruppi parlamentari tuttora riluttanti all'intesa, a Renzi non dovrebbe risultare così indifferente la qualità e la natura di questo consenso, né il modo in cui coltivarlo e usarlo a fini, per così dire, costituenti.

Oggi il segretario del Pd sembra più preoccupato di contendere gli argomenti popolari al "partito del no", che di emancipare la discussione sulle riforme dalla vulgata antipolitica. Perfino sulle preferenze, di cui rivendica la storica predilezione e giustifica oggi il sacrificio addossandone la responsabilità a Berlusconi, preferisce accondiscendere e non contrapporsi alla retorica anti-casta. Il buon senso profuso dal "Renzi privato", alla ricerca di un accordo realistico col nemico di sempre, se ne sta così nascosto per paura del senso comune, che il "Renzi pubblico" continua invece a interpretare brillantemente, con una negligenza per la realtà e un genio per la rappresentazione davvero tutti berlusconiani.

La sua traduzione in "volgare" dei contenuti dell'accordo fa volutamente eco ai toni di rivolta delle piazze che gli rimproverano l'inciucio col Caimano. A suo modo, come Moro immaginava potessero parallelamente convergere la DC e il PCI divisi dal muro di Yalta, così Renzi inaugura le convergenze parallele tra la politica e l'antipolitica, tra le inevitabili responsabilità della prima e le irresistibili ragioni della seconda. Le riforme spiegate al popolo divengono così, a salvaguardia di un compromesso inevitabilmente complicato, un bignamino di semplicismo e oltranzismo luogo-comunista. La fine del bicameralismo? Un bel taglio di 315 stipendi! La riforma del Titolo V? Una dieta dimagrante e salutare per consiglieri regionali pasciuti di rimborsi rubati! La riforma maggioritaria della legge elettorale? La fine della dittatura dei piccoli partiti (che a ben guardare, nella storia italiana della Prima, come della Seconda Repubblica non è mai esistita, se non come alibi per l'inefficienza dei grandi).

Il segretario del Pd avrebbe buon gioco a sostenere che il fine di una riforma storica giustifica i mezzi della "nobile menzogna" e della ruffianeria antipolitica. Pensiamo e temiamo sinceramente per lui che si sbagli. La retorica anti-casta non è il sentimento ingenuo di un popolo disgustato dalla corruzione e dall'inefficienza della classe politica. È il riflesso culturale ricorrente di un Paese, che la politica sempre rappresenta secondo l'esatta misura dei suoi difetti e l'antipolitica restituisce miracolosamente all'innocenza perduta e a un'immaginaria verginità morale. Così fu con Mani Pulite e la seduzione del moralismo panpenalista. Così è oggi con il forsennato "fuori tutti", che dovrebbe vendicare il parassitismo istituzionale e l'usurpazione dei diritti del popolo da parte dei suoi rappresentanti. L'antipolitica è l'eterno fascismo italiano, che non si sazia divorando le spoglie dei perdenti, né si addomestica dando sfogo ai suoi malumori, ma rinasce in sempre nuovi piazzali Loreto.

Renzi non potrà stare ancora troppo a lungo con un piede dentro e un piede fuori dal Palazzo e rivendicare la propria estraneità alle vicende e ai fallimenti della politica italiana. Il prossimo e naturale bersaglio della rivolta antipolitica sarà lui e non penso gli convenga arrivare a questo appuntamento avendo concesso tutto e non avendo conteso nulla all'egemonia culturale del "rottamatevi tutti "e all'illusione di una democrazia senza politica. Questa è la più terribile sfida culturale e politica che lo attende, altro che vendicarsi di D'Alema.