Incapace di ridurre strutturalmente la spesa pubblica, la politica italiana è ormai alla ricerca disperata di nuovo gettito fiscale, tanto per coprire le voragini che il calo dei consumi apre nei conti dello Stato (compensato negli ultimi due anni dai tanti prelievi patrimoniali) quanto per provare a ridurre la tassazione sul lavoro. La nuova idea che circola negli ambienti del PD è la cosiddetta "Google Tax", un non meglio identificato prelievo sulle multinazionali del web basato "su adeguati sistemi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale". La citazione proviene da un emendamento al disegno di legge di delega fiscale presentato tempo fa come primo firmatario dal renziano Ernesto Carbone in Commissione Finanze: stando a quanto riporta oggi il Sole24Ore, la misura sarebbe ora tornata di moda tra i democratici impegnati nell'esame della legge di stabilità, come possibile strumento di copertura di un taglio del cuneo fiscale.

Il vantaggio dei parlamentari del PD rispetto ai loro colleghi del centrodestra è che mediamente leggono di più e masticano meglio le lingue straniere: la proposta di una tassazione ad hoc sui giganti della Rete circola da tempo negli altri paesi europei e i democratici si sono evidentemente lasciati ispirare dal governo francese di Francois Holland, che cerca da mesi di portare la questione in sede UE, ma anche dall'acceso dibattito in corso nel Regno Unito. Il premier David Cameron ne parlò apertamente al World Economic Forum dello scorso anno ("I am a liberal, I am not in favour of heavy taxes, but each company should pay a fair contribuito to the country where it operates") ed è spesso costretto a difendersi da chi lo accusa di non aver posto apertamente il problema nel suo recente colloquio con il ceo di Google, Erik Schimdt. Insomma, la tentazione di usare Google, Facebook, Apple e le altre multinazionali Internet come un bancomat non ha confini e colori politici.

Ma siamo sicuri che sia una buona idea questa Google Tax? Oggi l'azienda di Mountain View, come altre innumerevoli imprese, rispetta "alla lettera" la normativa fiscale dei paesi in cui opera, sfruttando la propria globalità per ridurre al massimo l'imposizione subita a vantaggio dei propri azionisti, ma anche dei propri lavoratori e dei consumatori e dei clienti, che in definitiva godono gratuitamente o a prezzi molto modici di servizi sempre più efficienti. La sfida della competizione fiscale continentale è oggi vinta dall'Irlanda, che con la sua bassa tassazione d'impresa raccoglie la gran parte delle tasse versate da Google in Europa. Tentare di contendere a Dublino - offrendo in Italia una tassazione altrettanto favorevole - una quota del "bottino" sarebbe sano e apprezzabile (non avverrà, non ci sperate, ndr). Al contrario, pensare che un'impresa si lasci intaccare la propria redditività da una maggiore tassazione nazionale senza colpo ferire è semplicemente illusorio: ne pagherebbero le conseguenze i consumatori, i fornitori, i clienti e i lavoratori italiani di quella impresa.

Per l'Europa intera, c'è da intavolare una riflessione profonda: questo non è più il centro del mondo e un certo riflesso statalista e conservatore contribuisce peraltro alla marginalizzazione. A fare i "fighetti" con le multinazionali, si incentiva un rischio storico che andrebbe invece contrastato con ogni mezzo: il disimpegno dei capitali del mondo dal Vecchio Continente. Per ogni singolo Paese europeo, tale riflessione vale ancora di più. Ricordiamoci sempre che in Italia abitano appena 60 milioni di persone. Nella sola provincia cinese del Guandgong sono oltre 100 milioni ed hanno già un reddito pro-capite superiore a quello italiano, mentre nel vicino Hunan (?) sono 65 milioni: hanno un reddito pro capite pari ad un terzo di quello italiano, ma in costante crescita.

 

Nota a margine: c'è molta confusione sull'espressione "Google Tax", alimentata anche dalla legge sul "diritto d'autore ancillare" recentemente approvata in Germania e che nella sua versione originaria, poi molto limata, veniva appunto chiamata "Google tax" o "link tax". Si tratta però non di imposizione fiscale ma di una disciplina sulle royalty.

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