Strade sostiene l'appello "No al riflusso statalista" pubblicato su Il Foglio

I messaggini che domenica sera l'indonesiano Erik Thohir inviava a Massimo Moratti durante Torino-Inter, con i quali il magnate indonesiano mostrava il suo disappunto per l'arbitraggio, segnano l'inizio dell'italianizzazione di uno sconosciuto (finora) imprenditore straniero. L'Italia è bella e accattivante - nonostante tutto l'impegno che noi italiano ci mettiamo a peggiorarla - e chi vi entra in contatto finisce inevitabilmente per sentirsene parte, come sta sperimentando l'italo-americano James Pallotta.

Oggi che due tra le principali squadre di calcio italiane (la Roma e l'Inter, appunto) sono di proprietà di capitalisti stranieri, molto diversi tra loro ma accomunati dall'idea che il potenziale di business del calcio italiano sia enorme, è molto probabile che presto altri super-ricchi del mondo busseranno alle porte della Serie A. L'argine si è finalmente rotto e questo probabilmente aiuterà i club italiani a ritrovare lo smalto perduto nell'ultimo decennio. C'è bisogno di "riforme strutturali" ovviamente, a cominciare dalla privatizzazione dei fatiscenti stadi italiani, dall'eliminazione dei troppi vincoli a carico delle società che decidono di costruirne di nuovi, da un alleggerimento del fisco e da una generale percezione che la Figc non navighi più nelle acque torbide di calciopoli. Tutto sommato, però, il Sistema Calcio è in proporzione più attraente per i capitali stranieri di quanto lo sia l'intero Paese. Nessuno ha temuto per l'italianità della Roma o dell'Inter, né tantomeno per la loro romanità e milanesità: al contrario, è abbastanza evidente che l'apporto di nuove risorse permette e permetterà a giallorossi e nerazzurri di competere con le potenze globali del pallone.

E' così difficile accettare che la dinamica del calcio non è così diversa da quella che governa qualsiasi altro settore economico? Perché non riconoscere che la capacità di un grande Paese come l'Italia non può essere la difesa di questa fantomatica italianità, ma il tentativo di "italianizzare" il mondo? Nessuna farneticazione neocoloniale in queste parole provocatorie, sia ben chiaro, solo un tentativo di ribaltare la questione. Se un fondo d'investimento internazionale o una società straniera acquistano un marchio italiano, essi stanno puntando sull'italianizzazione delle loro attività, non stanno depredando l'Italia. Se decidono di spostare uno stabilimento dall'Italia all'estero, compiono la stessa scelta che tanti italianissimi imprenditori stanno (spesso dolorosamente) affrontando: non accade perché sono stranieri, ma perché l'Italia è ostile agli investimenti e all'attività d'impresa. In troppi casi, insomma, l'Italia non italianizza. Non è sempre così, per fortuna (nel prossimo numero del mensile di Strade ospiteremo un'analisi di un caso di successo, quello dell'IKEA ed il suo indotto sempre più basato in Italia), ma poche rondini non fanno primavera.

Perché la storia non ha raccontato di un'Alitalia capace di comprare altre compagnie e di fare di Malpensa - come spesso hanno suggerito gli esperti di settore Ugo Arrigo e Andrea Giuricin - un hub per i voli euro-asiatici? Perché non stiamo qui a parlare di un'azienda italiana di elettrodomestici diventata competitiva nella produzione di tablet ed altri strumenti informatici? Qui non c'è nulla da difendere, qui c'è da riprendere una strategia d'attacco. L'Italia tornerà a crescere quando riprenderà ad italianizzare (pro-quota, ovviamente) l'economia del mondo. Per questo, e per molti ragioni che hanno a che fare con gli equilibri di finanza pubblica, con il nostro favore per la libera competizione e il fastidio per lo statalismo e il capitalismo di relazione, Strade sostiene l'appello "No al riflusso statalista", pubblicato su Il Foglio da un gruppo autorevole di economisti, analisti, giornalisti ed esperti di politiche pubbliche. No al riflusso, sì all'afflusso.

 

pallotta thohir