La strage alla redazione di Charlie Hebdo ci ha scosso nel profondo, e a distanza di vari giorni continua, inevitabilmente, ad essere centrale nel dibattito.

Rispetto ad altri attentati che hanno insanguinato l'Occidente, quello del 7 gennaio è stato accompagnato da un'onda emotiva eccezionale, e questo è in parte significativa legato al fatto che sia stato assaltato un giornale e che quindi sia stata direttamente colpita la "libertà di espressione".

Charb grande

Un numero grandissimo di persone, in Francia e nel resto d'Europa, si è sentito coinvolto nella vicenda ed ha provato il bisogno di portare una qualche solidarietà in misura maggiore a quanto sarebbe avvenuto se fosse stato colpito un diverso obiettivo civile.

L'idea dell'attacco alla libertà di parola è stata centrale nella reazione della gente, eppure non si può dire che sia stata altrettanto centrale nella reazione che le istituzioni hanno avuto all'attentato di Parigi. L'azione della politica, nei fatti, più che essere ispirata alla difesa di principio e di fatto della libertà di parola, è stata ispirata dalla priorità del mantenimento dell'ordine.

Tra una cerimonia di commemorazione e un invio di una portaerei in Iraq, la risposta del governo francese è stata prima di tutto "securitaria", fatta di maggiori controlli e divieti – e possiamo star certi che tutto, da quello che viene stampato a quanto è pubblicato su internet, fino anche alla corrispondenza privata, sarà sottoposto a maggior scrutinio da parte delle autorità di quanto è avvenuto in passato.

Nella guerra di alcuni terroristi islamisti contro le libertà civili dei francesi, c'è un terzo che vince sempre: è lo Stato, che ad ogni "crisi" accresce i propri poteri di controllo. Nei fatti è ben difficile che la memoria delle vittime di Parigi sia onorata da un rafforzamento della libertà di stampa. È molto più probabile, invece, che chi è al potere trovi nuove giustificazioni per esercitare un controllo "a fin di bene" su tutto quello che viene detto.

Quella Francia che si ribella alla violenza assassina dei terroristi, nella pratica si piega ogni giorno alla censura imposta dallo Stato. Solo pochi mesi prima dell'agguato di Parigi la politica del Front National Anne-Sophie Leclère è stata condannata a 9 mesi di reclusione per aver rilanciato una caricatura da scimmia del ministro Christian Taubira. Incidentalmente, ricordiamo che la caricatura era opera di Charb, caduto vittima dell'attentato, ed era stata pubblicata da Charlie Hebdo.

Dopo l'attentato, mentre tutti erano impegnati ad essere Charlie, è stato arrestato per un tweet il comico Dieudonné, notoriamente su posizioni antisemite, e probabilmente per "par condicio", l'avvocato franco-israeliano Arno Klarsfeld è stato inquisito per aver dichiarato che "una parte dei giovani delle banlieue sono antisemiti". Apprendiamo che un sedicenne di Nantes è stato arrestato per un disegno che fa apologia di terrorismo, che un uomo è stato condannato a 6 mesi per aver riso della strage di Parigi e che un professore è stato invece sospeso per aver mostrato in classe le vignette di Charlie Hebdo.

E, tanto per restare sul diritto alla libertà dei media, arriva adesso la notizia che il sindaco di Parigi Anne Hidalgo ha denunciato la rete televisiva americana Fox News per aver affermato che alcuni quartieri delle città francesi sono off-limits per i non musulmani.

Certo, questo tipo di atteggiamento non è una novità recente. Lo stesso Charlie Hebdo, ad esempio, in passato è stato portato in tribunale e nel 2006 il presidente Chirac in persona si mosse per condannare le sue vignette contro l'Islam come un"evidente provocazione". Nel 2008 Brigitte Bardot è stata condannata per una lettera scritta al Ministro dell'Interno giudicata offensiva nei confronti di musulmani ed omosessuali; la stessa sorte è toccata due anni dopo allo stilista John Galliano, stavolta per commenti ostili agli ebrei.

Nel 2012 il parlamento francese è arrivato a legiferare sulla storiografia, rendendo un reato la negazione del genocidio degli armeni.
E così via. Per il futuro non possiamo che aspettarci che il trend continui.

Naturalmente noi italiani non siamo da meno. Abbiamo leggi sulla diffamazione che sono tra le più punitive, mandiamo in galera un giornalista perché ha accusato i magistrati del caso Tortora, quereliamo Forattini per una vignetta e processiamo per vilipendio un povero Cristo che dice che "l'Italia è un paese di merda". Proprio di questi giorni è la condanna a un anno e tre mesi di reclusione più 150mila euro di multa comminata ad un ex deputato leghista per una vignetta sulla Kyenge.

Il fatto è che, agli argomenti da sempre intoccabili, si aggiungono ogni giorno nuove "sensibilità da rispettare" e parallelamente si restringono, nei fatti, gli spazi per la libertà di espressione, che – giova ricordarlo – non è libertà di parlare delle condizioni atmosferiche, ma è e dovrebbe sempre essere libertà di dire cose "controverse".

Se si pensa, come Papa Francesco, che non si deve offendere la "mamma", allora finisce che si può parlare davvero di poco, perché ciascuno ha la sua "mamma" da difendere.

Per alcuni è importante la religione, ma altri possono essere sensibili ad altri valori. Una femminista può sentirsi offesa dal concorso di Miss Italia, dalle vallette-oche in tv o da qualsiasi rappresentazione della donna che lei reputi "oggettificante". Al tempo stesso un tradizionalista bigotto potrebbe sentirsi offeso dalle manifestazioni di emancipazione della donna, dalle minigonne ai rossetti rosa shocking. Un gay può sentirsi offeso profondamente dalla condanna dell'omosessualità come peccato fatta dalla Chiesa ed un cattolico conservatore potrebbe sentirsi offeso dall'ostentazione dell'omosessualità o degli stili di vita alternativi.

E allora che si fa? Si vieta tutto per prevenire la collera e con essa, magari, una potenziale reazione violenta?

Il gioco è semplice. A seconda di che tasto si tocca ciascuno di volta in volta può sentirsi dalla parte dell'offeso: i cristiani, i musulmani, gli ebrei, gli atei, gli uomini, le donne, i gay, gli etero, e così via. E a quel punto chiunque sarà pronto a chiedere che questa o quella cosa venga vietata.

È chiaro che se si parte su una simile strada non ci si ferma più, oppure, più realisticamente, ci si ferma selettivamente, difendendo la libertà di espressione di Tizio e mettendo il bavaglio a Caio, a seconda delle preferenze culturali di determinate élites, e ampliando il potere di intervento discrezionale della magistratura nella vita politica e sociale.

Per contrastare questa deriva verso il "vietato parlare" non c'è altra alternativa se non quella di impegnarsi a difesa della libertà di espressione sempre, anche quando quello che viene detto o scritto è davvero sgradevole dal nostro punto di vista. Non è facile, naturalmente, perché ognuno di noi tiene ai propri valori culturali, ma appare ragionevolmente l'unico modo per provare a porre un freno alla pretesa distopica di un "pensiero addomesticato".