Qualche giorno fa il Financial Times ha rivelato che il Parlamento Europeo si accingerebbe a discutere una mozione che chiede lo split-up di Google, per supposto abuso di posizione dominante da parte del motore di ricerca. La mozione sarebbe un mero atto di indirizzo politico – il Parlamento Europeo non ha il potere di imporre alcunchè in materia di antitrust - fortemente sostenuto da un blocco trasversale di parlamentari tedeschi, e ispirato da grandi campioni dell'editoria continentale basati in Germania (su tutti il gruppo Axel Springer).

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Da quanto riportato dal Financial Times, si legge che l'obiettivo sarebbe arrivare a separare il motore di ricerca dagli altri servizi offerti da Google, in quanto l'azienda statunitense starebbe impiegando la sua posizione dominante nel mercato dei motori di ricerca (oltre il 90% in Europa), per consolidare la propria posizione anche in mercati confinanti (come quello dei motori di ricerca specializzati in servizi turistici, oppure quello della pubblicità online, ovvero il mercato editoriale), a scapito dei concorrenti (per fare solo qualche esempio, siti quali Expedia ovvero servizi web offerti da concorrenti come Microsoft).

Dal punto di vista dell'antitrust, si potrebbe fin d'ora concludere che nihil sub sole novi: queste preoccupazioni circa la struttura del mercato online della pubblicità e dei motori di ricerca erano state già tutte affrontate dalla Commissione Europea nel corso di un'investigazione durata quattro anni e conclusasi a febbraio di quest'anno con l'impegno di Google a modificare alcune sue pratiche commerciali per venire incontro alle richieste del regolatore europeo, tra cui l'impegno a mostrare i prodotti sponsorizzati da suoi rivali in cima alla pagina dei risultati di ricerca. Un'analoga iniziativa antitrust intrapresa dalla Federal Trade Commission negli Stati Uniti aveva sortito esito equivalente nel 2013, di fatto sancendo una vittoria per Google e il suo modello di business.

La saga europea ha però iniziato una nuova serie quando, a settembre di quest'anno, l'uscente commissario antitrust, Joaquin Almunia, ha dichiarato alla stampa di essere insoddisfatto del modo in cui Google ha ottemperato ad alcuni degli impegni presi con la Commissione (che sono legalmente vincolanti, in termini di diritto europeo), e di stare valutando un'ulteriore investigazione sulla distribuzione del sistema operativo Android, presente nel 70% degli smartphones attivi. In sintesi, il fatto che Android sia distribuito ai produttori di cellulari con la possibilità di installare con esso tutto il set di servizi e apps di Google (come il motore di ricerca, Google Maps, Youtube ecc), determinerebbe un'effetto anticompetitivo nei confronti dei sistemi operativi concorrenti.

Non mi addentrerò nelle tecnicalità legali e tecnologiche che accompagnano la distribuzione di Android. Mi limito però a far notare che Android viene distribuito da Google in maniera gratuita e in formato open source, in modo tale da consentire a ciascuno dei produttori di smartphones di sviluppare l'ambiente informatico del cellulare nel modo che preferisce, anche attraverso interfacce che nascondono completamente l'esistenza di Android. Quanto alle apps Google, esse non sono obbligatoriamente legate al sistema operativo, e ciascuno dei produttori può infatti decidere di fare opt-out da esse, pur impiegando Android come sistema operativo di base. Un esempio di ciò è il Kindle di Amazon: benchè usi il sistema operativo Android, esso non incorpora alcuna delle apps e dei servizi brandizzati da Google.

Il recente focus su Android, in verità, pare pretestuoso. E la mozione parlamentare in favore dello spacchettamento del motore di ricerca dagli altri servizi Google dimostra chiaramente che l'obiettivo grosso della caccia è l'algoritmo del motore di ricerca Google, ed è un obiettivo che la politica europea (ma sarebbe meglio dire tedesca) sta provando a perseguire attraverso la strumentalizzazione delle norme antitrust.

Il regolatore – alias la Commissione Europea – ha finora resistito alle pressioni politiche in tal senso, privilegiando un approccio conciliativo con Google anzichè contenzioso, e interpretando il fine ultimo delle norme antitrust come promozione degli interessi dei consumatori anzichè dei competitors dell'azienda.

L'idea di scorporare il motore di ricerca dagli altri servizi di Google allude alla dottrina delle cosiddette essential facilities, secondo la quale il proprietario di una rete non replicabile deve consentirvi l'accesso ai suoi rivali quando, in assenza di tale accesso, la competizione nel mercato risulterebbe impossibile o seriamente impedita. L'obiettivo – finora non dichiarato – di chi sostiene lo spacchettamento di Google, è quello di considerarne il motore di ricerca alla stregua di una rete indispensabile per l'offerta di servizi concorrenti che da essa non possono prescindere, come ad esempio accade per le reti ferroviarie, o energetiche.

Ma è un terreno a dir poco scivoloso da un punto di vista legale, vista la cautela con cui la Corte di Giustizia Europea (CGE) ha chiarito i criteri secondo i quali una facility può esser considerata essenziale.

Tali criteri sono stati elaborati nella sentenza IMS Health. In quella causa la CGE ha statuito che, affinchè un'impresa in posizione dominante possa essere costretta a rivelare informazioni coperte da diritti di proprietà intellettuale (o industriale, alias l'algoritmo di Google) ad un'azienda concorrente, è necessario che:

a) L'azienda concorrente intenda offrire nuovi servizi per i quali c'è una domanda di mercato e che non siano offerti dall'impresa dominante;

b) L'azienda dominante non possa avanzare giustificazioni obiettive a supporto del rifiuto di condividere le informazioni riservate;

c) Il risultato del rifiuto di fornire le informazioni riservate è l'eliminazione della concorrenza nel mercato di riferimento.

Insomma, fino a prova contraria, Google avrebbe tutte le ragioni legali per opporsi a richieste di condivisione del proprio algoritmo ovvero ad una separazione proprietaria coatta, e per costringerla a farlo servirebbe cambiare il diritto europeo di riferimento. Ma a quel punto il problema diverrebbe un altro, e ben più grave, di affidabilità della rule of law europea agli occhi degli investitori internazionali. Se l'Unione Europea legifera contra Google per una volta, perchè non dovrebbe farlo, di nuovo, contro qualcun altro? E cosa la distinguerebbe, a quel punto, dal Venezuela di Chavez?

Non è abbattendo Google per via regolatoria che si creano le condizioni affinchè possa nascere, in futuro, un equivalente di Google (o di Microsoft, o di Amazon, o di Facebook) in Europa. Questa vicenda può mettere a rischio l'unico spacchettamento necessario, quello cioè tra le regole antitrust e la discrezionalità politica.