Il caos di un irrisolto dopoguerra e la bomba dell'emigrazione di massa dalle coste libiche. Era meglio con Gheddafi? Chi lo pensa non si rende conto che il suo quarantennio di potere assoluto e totalitario è stato la causa, non la provvisoria soluzione, del problema che abbiamo di fronte.

Magni Libia grande

Libia, tutti ne parlano per il problema capitale dell'immigrazione nel Mediterraneo. Tutti la dimenticano di nuovo, però, quando si affronta il problema della guerra civile in corso nel Paese. Nel 2011, la Nato è intervenuta per far rispettare una No Fly Zone, in un'operazione che si è conclusa con la caduta del regime di Muhammar Gheddafi. Visto il caos successivo, nell'opinione pubblica italiana si è fatta strada l'idea che fosse meglio mantenere al potere il vecchio dittatore.

Il Comitato Atlantico Italiano ha organizzato a Roma una conferenza su "Libia e il futuro della sicurezza nel Mediterraneo". Per la politica italiana erano presenti Benedetto Della Vedova (sottosegretario agli Esteri per la Cooperazione Internazionale) e Fabrizio Cicchitto (commissione Esteri alla Camera). Quest'ultimo ha definito un "errore" l'intervento in Libia, un'azione "contro gli interessi italiani" in cui è strato trascinato il governo Berlusconi "nel momento in cui era più debole".

Presente alla stessa tavola rotonda c'era anche Mustafa Ali Rugibani, incaricato d'affari dell'ambasciata libica in Vaticano. Dichiara di essere il primo a volere che si torni a rispettare i patti fatti con Gheddafi. Da pragmatico, ritiene che siano sempre meglio di niente, una base da cui partire per ricostruire rapporti normali con un paese distrutto. Ma della dittatura di allora, cosa dice? "Il caos che oggi c'è in Libia è dovuto al fatto che Gheddafi non ha fatto crescere alcuna società civile. Non ha governato in modo onesto. Ha pensato solo a se stesso e alla sua famiglia. Ha foraggiato il terrorismo in tutta l'Africa. Io stesso ho dovuto vivere in esilio, non sono potuto tornare in Libia nemmeno per seppellire mio padre".

Noman Benotman, ex combattente islamico (al fronte in Afghanistan contro i sovietici e poi in lotta contro Gheddafi) è ora un esperto di terrorismo internazionale e lavora per la Quilliam Foundation, studiando i processi di radicalizzazione nel mondo islamico. Ci mette in guardia sulla Libia, ormai divenuta un "paradiso del nuovo terrorismo" che ha "dichiarato guerra ai cristiani". Ma perché è diventata quella terra di nessuno? Lui stesso ne è la dimostrazione.

Fin da piccolo ha dovuto vivere in esilio. La sua famiglia di dissidenti è stata spogliata di tutto, case, terreni, attività economiche. Gheddafi non colpiva i singoli, ma tutto il clan: quando un uomo dissentiva, tutti i parenti vicini e lontani, bambini compresi, subivano la repressione. È in queste condizioni che sono avvenute le due conversioni di Noman Benotman, la prima verso la lotta armata in gruppi islamici, la seconda verso l'esilio politico in Gran Bretagna, a "lottare", da analista, contro il terrorismo che ormai ben conosce.

"La Libia era un paese con un uomo solo al comando. Quando quest'uomo solo al comando è crollato, tutti i vicini si sono trovati ad avere a che fare con un territorio completamente privo di istituzioni", ci spiega Michael Frendo, già ministro degli Esteri di Malta, una sorta di ponte fra il mondo europeo e quello arabo. "Il fatto che gli europei abbiano aiutato la rivoluzione contro Gheddafi non è infausto, in sé. Il fatto infausto è semmai che abbiano abbandonato la Libia a se stessa dopo la rivoluzione, lasciandola nel caos".

"Storicamente, a differenza degli altri Stati della primavera araba, Egitto e Tunisia in primis, la Libia non ha mai avuto delle reali istituzioni – ci spiega, in un'altra occasione, Michela Mercuri, docente di Storia contemporanea dei paesi mediterranei all'Università di Macerata e grande conoscitrice della Libia – È stata per più di un quarantennio la Jamahiriyya di Gheddafi, una sorta di 'struttura' senza partiti politici, senza elezioni e senza neppure una società civile degna di questo nome, in cui è sempre rimasta forte la connotazione tribale e localistica. A differenza degli altri Paesi, dove è stato possibile 'liberarsi del dittatore', ma tenere in piedi, in qualche modo, una sorta di apparato statale, nel caso della Libia la caduta del Colonnello ha implicato il collasso del sistema, con la rinascita di tutti quei fermenti localistici e quelle rivendicazioni tribali soltanto sopiti durante il lungo dominio di Gheddafi".

Chiunque abbia vissuto in Libia, chiunque abbia studiato e conosciuto lo sfortunato paese, giunge sempre alla stessa conclusione: il paese è nel caos perché Gheddafi ha lasciato un deserto morale, civile, istituzionale, dopo 40 anni di potere assoluto. Il rimpianto per il vecchio dittatore, l'atteggiamento amichevole tenuto dall'Italia nei suoi confronti fino al 2011, sono la dimostrazione della nostra cecità. Una cecità dovuta a un istinto un po' razzista, se vogliamo dirla tutta: l'idea che un popolo arabo non possa essere democratico e abbia bisogno di un "uomo forte". Dovuta anche, però, a una malcelata diffidenza nei confronti della democrazia, tipica di tutte le diplomazie che preferiscono trattare con un uomo solo al comando.

Noi non abbiamo mai pensato alla Libia, fino al 2011. Abbiamo solo pensato a Gheddafi. Nonostante la sua dichiarata ostilità nei confronti dell'Italia, i suoi ricatti, le sue minacce, i pescherecci sequestrati, le giornate dell'odio anti-italiano con le profanazioni dei nostri cimiteri e le razzie dei nostri beni, abbiamo preferito trattare con il dittatore. Non abbiamo neppure mai pensato di preparare un'alternativa al suo potere, tantomeno di creare un governo in esilio. Finché la Libia non ci è letteralmente sprofondata sotto i piedi.