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I singoli casi di cronaca, anche quando molto gravi, raccontano poco di un contesto sociale, mentre le reazioni ci dicono molto di più. Vale anche per l’attentato di Macerata, che ha scosso fortemente l’opinione pubblica, addirittura superando le peggiori impressioni sulle nostre tensioni civili, e che impone degli interrogativi.

Che differenza c’è fra un tizio che si mette a sparare contro bersagli precisi in nome dell’italianità e chi si mette a farlo in nome di Allah?

Che differenza c’è fra il giustificazionismo di troppi musulmani appartenenti alla zona grigia (e ne abbiamo avute di zone grigie in Italia...) e quello di molti patrioti nostrani che hanno sminuito il gesto eclatante contro “l’invasione”?

Personalmente, tutte le volte che sentirò in futuro richieste ai musulmani di distinguersi dagli attentati jihadisti ricorderò il giustificazionismo, spesso sfociato addirittura in solidarietà col terrorista, dimostrato attivamente da migliaia di italiani nelle scorse giornate. Quasi tutti hanno parlato di Salvini, ma, senza dimenticare l’apologia di reato manifestata da Forza Nuova, perché non dare attenzione al post di Simone Di Stefano (Casapound)? Mentre scriviamo ha superato i 17mila like di approvazione, numeri tutt’altro che marginali per un politico, a maggior ragione se rappresentante di una forza considerata (ancora) minore.

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Un post all’insegna del “camerati che sbagliano”, dove si usa l’espressione “farsi giustizia da soli” per indicare una caccia all’uomo su base etnica a mano armata. Farsi giustizia. Ho segnalato il post, immagino non da solo, e Facebook mi ha risposto che corrispondeva agli standard della comunità: la stessa che invece censura all’istante termini come “froci” o “negri”, a prescindere dal contesto, fossero anche palesemente ironici o citazioni additate a cattivo esempio. Provate a immaginare se un musulmano “mainstream”, un imam, avesse fatto un post analogo dopo un attentato islamista, e se dietro vi fosse stata una reazione da parte dei musulmani analoga a quella prodotta dai nostri compaesani. 

Di fronte a tutto questo abbiamo il dovere di fermarci a riflettere sul vero male che sta avvelenando le nostre società: la deriva identitarista. Il tribalismo che porta a giustificare chi sento simile a me perfino se uccide chi sento diverso da me. L’identitarismo esasperato porta sistematicamente al sengue versato per le strade: è pericoloso sempre, sia nazionalista, etnico, politico, religioso. E viviamo in un periodo intriso di identitarismi di ogni tipo, dove però, soprattutto in Italia, sembra trovare particolare forza quello nazionale.

Ma ha senso quindi in questo contesto, accusare Salvini di essere il “mandate morale” della sparatoria (espressione ormai nota utilizzata da Saviano) oppure chiedergli di scusarsi come ha fatto la Presidente Boldrini (peraltro in leggera contraddizione con alcune sue dichiarazioni di pochi giorni prima che invitavano a non politicizzare e personalizzare episodi di cronaca)? A nostro avviso si tratta di un blando “salvinismo uguale e contrario”, sia pure accompagnato da un maggiore grado di coscienza, volto a personalizzare lo scontro politico, esasperarlo, fomentando la propria tifoseria ma consegnando materiale a quella opposta. Esattamente il contrario del poco che di utile possiamo fare per andare in controtendenza rispetto a una corrente che ci sta trascinando sempre più verso il basso.

Al di là della responsabilità penale che è sempre, sempre, personale, per quale ragione il “mandante morale” sarebbe precisamente Salvini? Perché non Forza Nuova? Perché non Di Stefano? Perché, e arriviamo al punto, non le decine di migliaia di persone che sostengono attivamente i loro argomenti? Dobbiamo prendere il diavolo per le corna e riconoscere che le liberaldemocrazie occidentali stanno affrontando una minaccia molto più spaventosa dei singoli arruffapopolo all’italiana: la vasta e variegata zona grigia a supporto della deriva identitaria, esattamente come accadde per fenomeni analoghi negli scorsi decenni (vedasi l’interessante saggio di Massimiliano Griner).

Prima che dei Salvini occupiamoci degli schemi sociali che stanno condizionando ogni democrazia. Amartya Sen scrisse “Identità e violenza”, che andrebbe riscoperto e letto con attenzione. L’affannosa difesa dell’identità genera sistematicamente violenza dell’uomo sui suoi simili e prima ancora su se stesso. Perché se è vero che i gruppi che si raccolgono in base a un’identità, sia essa la razza, la religione ma anche la “cultura”, non possono che generare conflitti, è altrettanto vero che ridurre l’essere umano a una delle sue affiliazioni opprime prima di tutto la sua individuale e splendida capacità di essere molteplice. E di convivere nel pluralismo della società aperta.

La situazione è ulteriormente aggravata dagli ormai noti meccanismi di diffusione delle notizie dei social network, che inseriscono gli utenti in bolle che riflettono opinioni già costituite, rafforzandole e radicalizzandole. Mentre noi ci siamo scandalizzati delle disgustose dichiarazioni di Salvini e Di Stefano, da altre parti si è continuato a parlare di immigrati che sgozzano e macellano, si sono accusati Boldrini e Saviano di fare sciacallaggio contro Salvini almeno quanto noi abbiamo rivolto (con migliori argomenti) le stesse accuse al leader leghista. Peggio: retropensieri che prima si sarebbero fermati a un commento a cena davanti al tg oggi restano, diventano riconoscibili, prendono coraggio e si sostengono a vicenda. In un meccanismo che tende sempre a selezionare notizie emotivamente più coinvolgenti ed ergere in cima il peggio. Anche da questo punto di vista, pensare di personalizzare il problema delle “fake news” trovando l’artefice nel pessimo Putin rischia di rivelarsi una buona strategia per serrare i ranghi liberal ma di buttarci in una grave illusione, come sempre fanno i capri espiatori semplicistici.

Quali soluzioni, dunque? Temo non ne esistano in senso proprio. Restano solo le responsabilità di ciascuno in un periodo per certi versi meraviglioso e per altri profondamente incivile e pericoloso. Salvini non è responsabile dell’attentato, ma resta responsabile delle squallide dichiarazioni di commento (in sostanza i razzisti sono colpa dei troppi immigrati, un po’ come l’antisemitismo è colpa degli ebrei, chioserebbe Carmelo Palma) che qualificano la sua miseria morale e intellettuale. L’ultima cosa che dobbiamo fare è seguirlo in questo percorso pericoloso. Le nostre istituzioni sono ancora sufficientemente forti per affrontare la deriva (ne hanno superate di peggio). Le fantasie antiparlamentari si combattono con il rispetto delle regole; lo sproloquio si combatte con la parola ragionata; la violenza con la forza di Stato e con la cultura della nonviolenza.

Certo, una diversa policy di controllo di Facebook, meno isterica sulle parolacce politicamente scorrette e più sensibile sull’odio vero, aiuterebbe. Nel frattempo sta a noi rifiutare la guerra fra bande di una politica fatta per agitare tribù, per proseguire il dibattito di una politica fondata sulle istanze dell’individuo.