La democrazia fai-da-te e i partiti usa-e-getta come ideali di riforma? Un sistema politico inconsistente e subalterno alla vulgata antipolitica sventola bandiera bianca sul finanziamento pubblico e pasticcia sul resto. La “grande riforma” è un programma troppo grosso per partiti troppo piccoli. Manca il tempo, la forza e pure la voglia per guardare al fondo della crisi della Repubblica.

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Il processo delle riforme elettorali e costituzionali non è mai partito. Però adesso “riparte”. La legge elettorale era al Senato, ma non ne usciva niente, perché non c'era un accordo tra le forze di maggioranza e ce n’era forse uno (per il ritorno al Mattarellum) trasversale, che Letta non si è sentito di infliggere ad Alfano, mentre quest'ultimo rompeva con Berlusconi per tenere in piedi il governo.

Ora la riforma elettorale riparte dalla Camera, dove il Pd, volendo, se la può confezionare in casa, mettendosi d'accordo con se stesso (cosa, in sé, non così scontata). Poi però, se pure fosse approvata, dovrebbe tornare al Senato, dove il disaccordo, che l'eventuale unilateralismo piddino aggraverebbe, potrebbe farsi più profondo, intenso e incomponibile.

La riforma costituzionale, che la procedura straordinaria di deroga all'articolo 138 della Costituzione doveva accelerare, è anch'essa ferma al palo. La legge di accelerazione (quella che prevedeva l'istituzione del cosiddetto “Comitato dei 40”) si è fermata anch'essa con l’uscita dalla maggioranza di Forza Italia. La sua approvazione in via definitiva alla Camera con meno dei due terzi la renderebbe infatti referendabile. Meglio dunque tornare alla procedura prevista dall'articolo 138, cioè alla casella del via. Anche qui, una ripartenza.

Nel caso del finanziamento pubblico dei partiti non siamo alla ripartenza, ma alla riapprovazione. Il Governo ha trasformato in decreto legge la proposta approvata finora da un solo ramo del Parlamento, per evitare che lo scivolamento oltre il 31 dicembre ne rinviasse di un anno l’entrata in vigore. Il limite di fondo della nuova legge (destinazione volontaria del 2 per mille dell'imposta e detrazioni sulle erogazioni liberali innalzate al 37%) non è, come Grillo pretende, nella sua irretroattività, ma nel fatto che i benefici pubblici previsti per il futuro riguardano i partiti esistenti – che hanno già presentato liste e candidature e eletto rappresentanti parlamentari – non tutti i partiti giuridicamente riconosciuti come tali. Però tutto fa brodo, penseranno nell’esecutivo, per riverginare l’immagine della politica inseguendo le parole d’ordine dell’antipolitica.

Torniamo alle riforme di sistema. Renzi è diventato segretario del Pd e non potendo traccheggiare a lungo (pena l'immediata perdita del credito e dell'aura riformatrice guadagnata alle primarie), si è ripreso in mano il dossier elettorale - che è tornato appunto alla Camera – e ha immediatamente allarmato Alfano e i suoi, che pretendono per la legge elettorale un accordo di maggioranza.

Questa, la nuda cronaca dei fatti. Qual è la morale?

L'esito delle elezioni, prima della Consulta, ha "rottamato" la legge elettorale, che la cattiva fama – guadagnata più per i difetti di chi l'aveva voluta che per quelli (pure macroscopici) del sistema che inaugurava – ha reso politicamente indifendibile, autorizzando "soluzioni" molto più indifendibili. La più indifendibile di tutte, quanto agli effetti concreti, è peraltro proprio quella che la Corte Costituzionale ha trovato per rimediare all'incostituzionalità del Porcellum. Uscire dai travagli della Seconda Repubblica tornando semplicemente alla Prima (proporzionale più preferenze)? Impossibile, anzi impensabile.

Del resto sulla legge elettorale il corto-circuito politico è evidente e difficilmente rimediabile. Servirebbe una legge elettorale per superare la fragilità di un sistema politico inconsistente, ideologicamente disancorato da qualunque tradizione e culturalmente subalterno alla vulgata della democrazia fai-da-te. Ma per fare una legge elettorale efficiente servirebbero partiti con una coscienza di sé e della propria natura, non organizzazioni usa-e-getta al servizio di leadership in un senso o nell’altro “extrapolitiche”.

Peraltro la legge elettorale – l’abbiamo già sperimentato con il Mattarellum– non inventa partiti a propria immagine e somiglianza, né consolida geometrie politiche ideali. A fare il bipolarismo è stata la politica reale (con l’avvio della stagione berlusconiana) e a sfasciarla pure (col trionfo dell’antipolitica grillina). Oggi, servirebbe certo una legge elettorale che non incentivasse il disordine e il non governo. Quindi, ripetiamo, quella ritagliata dalla Consulta dalle spoglie del Porcellum è certamente la peggiore. Ma l’ordine e il governo politico è comunque il mestiere dei partiti e senza partiti veri (o con un solo partito “quasi vero”, il Pd, perennemente sull’orlo di una crisi di nervi e di identità) è difficile trovare chi lo eserciti responsabilmente e creativamente.

Lo stesso, mutatis mutandis, può dirsi a proposito delle riforme costituzionali, dove il primo problema non è costituito dal superamento del bicameralismo, dalla soppressione delle province, dalla riduzione del numero dei parlamentari, da un ridisegno ordinato del cosiddetto federalismo e via elencando... (sono, questi, tutti problemi importantissimi, ma per così dire secondi). Il problema di fondo, anzi il meta-problema costituzionale è il riallineamento della meccanica istituzionale (e dunque anche elettorale) a una dinamica politica efficiente e vitale.

Il vero nodo delle riforme sta nel nucleo incandescente della rivolta antipolitica, non nella logica formale che dovrebbe presiedere alla riscrittura della Carta.  Anche qui a essere in gioco è il ruolo e la forza (o la debolezza) dei partiti. È la costituzione materiale della Repubblica a essere collassata, sono le fondamenta civili della democrazia italiana a non reggere più il peso, né gli esiti del gioco politico. Per sciogliere questo nodo non basta modernizzare le istituzioni, ma serve ripoliticizzare la lotta democratica contendendola a una deriva nichilistica ed emancipandola dallo schema coatto dell'occupazione e dello sgombero del Palazzo. Vaste programme, forse troppo per un sistema politico che, come detto, non ha né lo spirito né il fisico delle grandi imprese. L’abolizione del finanziamento pubblico diretto dei partiti (progressiva e dunque di per sé sospetta) è da questo punto di vista una bandiera bianca esposta alla finestra davanti all’assedio dell’antipolitica. È una resa che non aggiusta, non rinnova e non rigenera il rapporto tra cittadini e istituzioni.

E allora? Vedremo. Nessuno sembra volere andare troppo a fondo in questi discorsi. In questo “fondo” stanno però sia le ragioni sia le possibili soluzioni della crisi della democrazia italiana. Preferiscono tutti discutere dei fenomeni e delle tempeste di superficie. E così faranno per i prossimi mesi.

Presumibilmente, per tornare alla cronaca, delle riforme costituzionali si parlerà tanto per parlare. Non ci sono né i tempi, né i numeri per approvarne alcuna in grado di entrare in vigore entro la primavera del 2015. Sulla legge elettorale, per giungere a un qualche risultato dei tre padroni del gioco politico, Renzi, Grillo e Berlusconi, almeno due si dovrebbero mettere d'accordo (una riforma su misura dell'attuale maggioranza non è credibile e neppure auspicabile).

Si può sognare un accordo sul sistema francese (a pacchetto, presidenzialismo compreso) tra PD e Forza Italia.  Però il governo non reggerebbe e il tempo disponibile per gli aggiustamenti costituzionali, come detto, non basterebbe. Si può ipotizzare o temere un accrocco para-francese (quello che Renzi chiama del Sindaco d'Italia) a Costituzione vigente. Però né Alfano né Letta lo concederanno domani, per paura che Renzi vada al voto dopodomani.

Siamo fermi, su tutta la linea, al punto di partenza. Ma si riparte e vedremo dove, e quando, riuscirà ad arrivare la carovana delle riforme. Comunque, potremmo scommettere, non troppo lontano.