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«Disprezzare queste feste significa disprezzare l’Italia» scrive Luigi Di Maio su Facebook, in risposta a Gramellini che sul Corriere della sera lo aveva definito “baciapile” per aver baciato l’ampolla di San Gennaro.

La fede di chiunque, persino quella del futuro premier italiano, non dovrebbe essere messa in discussione. È diritto dell’on. Di Maio credere quel che vuole, a patto di aver cura che la pratica della propria fede non sia in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano, così come garantito dalla Costituzione. Se l’on. Di Maio avesse risposto così a Gramellini, la questione si sarebbe conclusa in maniera elegante e si sarebbe parlato delle fantomatiche “cose concrete”, dei “problemi veri”.

Ma non è andata così. Il (forse) futuro premier si è appellato non alla libertà religiosa, ma all’ideale identità religiosa dell’Italia. L’Italia è questo: San Gennaro e gli altri, «accetterò volentieri inviti, se arriveranno, da ogni campanile d’Italia», «Napoli senza San Gennaro è come Napoli senza il Vesuvio».

Sentire il futuro premier dire questo fa venire i brividi a chi è italiano ma non è cattolico. Posto che neanche tutti i cattolici si riconoscono nella spiritualità del culto dei santi, l’idea della sovrapposizione perfetta tra una fede della maggioranza di un popolo e l’identità di tutto il popolo è pericolosa. Ed è un film già visto, purtroppo.

Siamo al “Make Italy Great Again”, alla nostalgia di quei bei tempi dove era tutto chiaro, certo e sicuro, dove il panino con la mortadella non poneva problemi di natura religiosa, a patto che non lo volessi mangiare di venerdì. La domenica c’era la messa e poi la partita di calcio, unica altra fede tollerata. Erano quei bei tempi in cui si poteva sorridere a Luigino il poeta (Gerardo Scala) che, in Così parlò Bellavista, declamava: «San Genna', non ti crucciare / tu lo sai, ti voglio bene, / ma 'na finta 'e Maradona / squaglie 'o sang rint' 'e vene!»

L’identità religiosa di quell’Italia fu costruita, mattone su mattone, con la cacciata di ebrei e musulmani dal Sud spagnolo alla fine del Quattrocento, la fondazione dei ghetti dove rinchiudere i “perfidi giudii”, l’Inquisizione che eliminava ogni traccia dei valdesi in Calabria e i Savoia che tentarono lo sterminio dei valdesi del Piemonte. Alcune poche esperienze positive nascevano da esigenze legate al commercio: la multireligiosa Livorno era funzionale per l’economia del Granducato di Toscana, dove le fedi diverse dalla cattolica erano represse con l’esilio o nel sangue. L’Italia non esisteva come entità politica unitaria, ma la sua identità religiosa doveva essere una e una sola. Dopo la concessione delle libertà civili a valdesi ed ebrei nel 1848 da parte di Carlo Alberto, si aprì una stagione di grandi speranze, sempre più ridotte, finché non furono infrante dalle infami Leggi Razziali del 1938.

«Non c’è Napoli senza San Gennaro» dice Di Maio. Cioè, chi non è devoto a San Gennaro — e non necessariamente perché «disprezza» — non è napoletano. Mi domando cosa avrebbe pensato di questo il mitico Giorgio Ascarelli, fondatore dell’Associazione Calcio Napoli. Non era devoto a San Gennaro. Era ebreo, e napoletano. Industriale e benefattore, una figura alla Olivetti, costruì e regalò lo stadio al Napoli, senza pensare ai soldi che ci perdeva. Ascarelli era napoletano, ma Mussolini decise un giorno che non lo era più. Morì prima degli eventi, nel 1930, e gli fu dedicato lo stadio, ma nel 1938 lo Stadio Ascarelli divenne Stadio Partenopeo. Un ebreo non poteva essere napoletano né la sua memoria nel cuore dei napoletani doveva essere incoraggiata. Di Ascarelli e dei fondatori ebrei del Casale e della Roma scrive Adam Smulevich nel suo recente libro Presidenti (Giuntina, Firenze 2017).

Tornando a Di Maio, il futuro premier non si è appellato alla libertà religiosa, ma alla pancia della «gente comune», espressione che ritiene migliore di «popolino», usata da Gramellini, pur essendo entrambe paternaliste. La festa di San Gennaro «non è una questione di fede o di superstizione, è una questione di identità». A parte che bisognerebbe chiedere a un prete cosa pensa di un fedele che dice che la festa del patrono non è questione di fede, il punto è che l’identità del popolo è data dalla manifestazione di una e una sola comunità religiosa, pur largamente maggioritaria. Sostanzialmente, senza San Gennaro non sei napoletano, e senza Chiesa Cattolica Romana non sei italiano.

Se per Di Maio è il classico — e forse innocente — tentativo di accattivarsi una certa fetta di elettorato, in tempi in cui si parla di diritti di cittadinanza e della loro eventuale estensione a chi ne è escluso, le parole di Di Maio suonano sinistre e grottesche. Non si è italiani per lo ius soli, ma per lo ius sanguinis Sancti Ianuarii, vale a dire per il diritto del sangue di San Gennaro.