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Nell’ambito delle diatribe sul liberalismo ritorna spesso la critica alla sclerotizzazione delle posizioni assunte. Ad esempio, la contrapposizione tra le teorizzazioni keynesiane dirigiste e i fautori dell’epistemologia debole e fallibile di Hayek assomiglia troppo spesso ad uno scontro ideologico astratto tra chi è alle prese con l’edificazione di totem rassicuranti.

Che senso ha infatti, in un contesto liberaldemocratico, destoricizzare il conflitto ed affrontare il dibattito armati di assoluti? E allora appare di buon senso affermare: né Keynes, né Hayek in senso pieno ed escludente ma – più opportunamente – meglio un approccio laico che sappia piegare efficacemente la teoria alle supreme esigenze della realtà, del contemporaneo.

Perché, ad esempio, se a fronte del surplus commerciale tedesco una spinta per una maggiore spesa sarebbe senz’altro oggi compatibile con una ragionevole proposta liberale ed europeista, in quanto la maggiore spesa tedesca si tradurrebbe in maggiori consumi ed importazioni di merci comunitarie; di contro, una opportuna strategia di austerity e di ricomposizione della spesa pubblica storica è sempre più necessaria per l’Italia malata di cattiva gestione dei trasferimenti e dell’influenza nefasta della politica sull’autonomia – soprattutto di rischio – del settore privato.

Qualcuno tra i puristi, e a ben vedere, potrebbe parlare di occasionalismo e di contraddittorietà degli assunti. E se fosse davvero così? Tra i maestri di liberalismo, infatti, occorre ricordare anche – oltre i soliti noti – Miguel De Unamuno il cui “Sentimento tragico della vita” venne duramente accusato di contraddizioni interne mentre lo stesso Don Miguel rispondeva, appunto, lodando la capacità dell’intelletto di mettere in discussione le proprie acquisizioni parziali mai veritiere in astratto e sempre aperte sul baratro dell’errore arricchente.

E come non ricordare, in tale contesto di pensatori alle prese con la demistificazione degli idoli, l’approccio liberale di Carlo Rosselli che, criticando la filosofia della storia marxista e il suo materialismo spersonalizzante, si diceva sicuro – nel “Socialismo Liberale” – del fatto che il moto sociale libero non avesse bisogno di una filosofia della storia sostitutiva ma di esitare, appunto, nella libertà dell’ approccio e del metodo a garanzia, innanzitutto, dell’impegno etico del singolo e dei suoi effetti liberanti sulla collettività.

E non fu davvero liberale anche il vecchio Schmitt in lotta contro “La Tirannia dei Valori” e lo scadimento del diritto europeo e delle sue forme in un rozzo sostanzialismo cripto rivoluzionario ed escatologico, erigente un ennesimo paradiso umanitario escludente critiche e ripensamenti e nel quale, ovviamente, l’avversario non può che essere criminale?

E quanto è liberale la Arendt di “Vita Activa” quando contro l’ipertrofia del “fare” programmato e del compito realizzato ed esatto, riposiziona il senso della Politica e la natura del mondo che ci unisce sui cardini del discorso libero tra pari e dell’azione umana che produce sempre – e per fortuna - effetti inintenzionali, paradossali quanto fecondi, non misurabili né prevedibili da alcuna pianificazione e che, per questo, è storicamente accompagnata da categorie esistenziali imprescindibili quale la “promessa” ed il “perdono” che strutturano, ancora oggi, il nostro mondo (cioè la relazione con l’altro) arginando il flusso banale e circolare dalla natura.

Teorizzazioni e pianificazioni “scientifiche”, dunque, che si sono sempre infrante sullo scoglio dell’imprevedibilità individuale e storica, insieme all’utopia costruttivistica di edificazione di una società nuova di giusti e pacificati, riottosi ad ogni conflitto, liberi da ogni miseria per sempre. In tal senso, forse, va anche opportunamente reinterpretata la stessa disputa – davvero ormai “mitica” – tra Croce ed Einaudi su liberalismo come religione della libertà e liberismo economico. Perché, a mio parere, la diffidenza di Croce verso l’appiattimento dello Spirito su una specifica visione economica più che stigmatizzare gli pseudo concetti di validità scientifica – fu senz’altro anche questo – esprimeva politicamente il rischio – sempre presente – di ingabbiare l’evoluzione delle idee e la libertà d’azione individuale e pubblica di fronte alle contingenze all’interno di una ipostatizzazione culturale data una volta per tutte.

Più concreto Croce che Einaudi, dunque? Può essere … ma ciò che davvero conta è il continuum del dibattito ideologico, il rifiuto di attardarsi su vangeli idolatrici ed autori vate.

In fondo, di nuovo, aveva ragione Rosselli: il moto è tutto, il fine è nulla … almeno tra le Penultime cose.