ATAC fuori servizio

Appare particolarmente lodevole ed utile l’iniziativa radicale per la convocazione di un referendum consultivo sulle modalità di affidamento del servizio di trasporto pubblico nella città di Roma. Una volta raggiunto il numero delle sottoscrizioni stabilite dallo statuto ed aperta la campagna elettorale ci sarà chi coglierà l’occasione per difendere la scelta - praticata anche in altre capitali europee - di affidare lo svolgimento dei servizi di trasporto (quello di superficie e quello su ferro) sinora gestiti dall’ATAC ovvero di una parte di essi all’ATAC medesima senza l’espletamento di una procedura di gara.

Ma ci sarà anche lo spazio per quanti vorranno battersi perché a Roma si proceda - per esempio per quanto concerne il servizio su ferro - in modo diverso da Berlino o Parigi, e perché si verifichi la possibilità di rendere concreta una condizione di eccezionalità, per una volta virtuosa, della nostra città e del modo di gestirne i servizi.

Da questo punto di vista non appare condivisibile la scelta di chi ritiene che sia meglio non “disturbare” il manovratore, a prescindere dalla fiducia che vi si ripone. Alle ragioni antireferendarie di chi difende lo status quo (dirigenti e dipendenti ATAC in testa) ovvero di quanti, come gli esponenti dell’amministrazione in carica, chiedono tempo sia per risollevare la città dalle macerie che il servizio di trasporto dalle condizioni nelle quali lo hanno trovato si sono aggiunte, infatti, anche quelle di chi ritiene l’iniziativa referendaria superflua ed anche un po’ perniciosa.

Per l’onorevole del Partito Democratico Roberto Morassut, per esempio, con la consultazione si rischia di revocare in dubbio - o di creare le condizioni perché si eluda - ciò che viene presentato come un obbligo imposto dalla normativa nazionale e di derivazione comunitaria, ossia procedere attraverso una procedura ad evidenza pubblica, e conseguentemente di rendere più incerto un percorso che non può non portare alla pubblicazione del bando necessario ad individuare il soggetto al quale affidare il servizio di trasporto della capitale.

Ma da questo punto di vista non vanno trascurati due aspetti. La Direttiva comunitaria nel settore dei trasporti pubblici di passeggeri (Reg. n. 1370/2007) lascia aperta la possibilità che le autorità locali competenti possano “procedere all’aggiudicazione diretta di contratti di servizio pubblico a un soggetto giuridicamente distinto su cui l’autorità competente a livello locale (…) esercita un controllo analogo a quello che esercita sulle proprie strutture” - seppure a condizioni e con modalità diverse da quelle che regolano attualmente il rapporto tra il Comune di Roma e l'Atac, come stabilito dalla medesima Direttiva – a meno che, è scritto sempre nel regolamento comunitario, non sia vietato dalla legislativa nazionale.

Da una lettura della normativa vigente e della letteratura in materia non sembra si possa affermare in modo inequivocabile che il legislatore italiano abbia utilizzato la facoltà di introdurre quel divieto che la normativa comunitaria ha concesso agli stati nazionali, e non sembrano essere adeguatamente efficaci rispetto alle indicazioni del Regolamento n. 1370 del 2007 le norme previgenti l’entrata in vigore della direttiva comunitaria come per esempio il decreto legislativo 19 dicembre 1997, n. 422. Su questo si tenga anche conto che, stando alla lettura del regolamento comunitario in questione - approvato dopo 7 anni dalla presentazione della proposta da parte della Commissione - nel settore del trasporto passeggeri il punto prioritario e qualificante dell’intervento dell’Unione non è tanto quello di sviluppare la concorrenza, quanto piuttosto quello declamato nel paragrafo 1 dell’art. 1: “garantire la fornitura di servizi di interesse generale che siano, tra l’altro, più numerosi, più sicuri, di migliore qualità o offerti a prezzi inferiori a quelli che il semplice gioco delle forze del mercato consentirebbe di fornire”.

Ciò significa che il percorso verso una procedura ad evidenza pubblica è meno inevitabile ed in discesa di quanto possa apparire. Le problematiche da risolvere sono complesse e numerose (a partire da quelle connesse allo stato dell’azienda ed alla particolare onerosità delle condizioni nelle quali si troverebbe un eventuale soggetto subentrante) ed il quadro normativo vigente sembra lasciare alle amministrazioni locali competenti (oltre che al legislatore) - come peraltro è giusto che sia - margini per esercitare le proprie scelte. Rispetto a queste ultime l’iniziativa referendaria, specialmente se costantemente accompagnata da un’appropriata attenzione da parte degli organi di stampa, può avere svolgere la funzione di fare piena luce tenendo viva l'attenzione dell'opinione pubblica e dei decisori e ricordando il termine (3 dicembre 2019) entro il quale dovranno essere assunte.

Se così non fosse ed avesse ragione Morassut nel dire che il dado è ormai tratto e che è sufficiente preparare i bandi di gara senza perdere tempo con una consultazione referendaria, qualcuno dovrebbe spiegare da un punto di vista politico - senza entrare nei meandri delle norme, dell’iter amministrativo - le scelte della Regione Lazio relative alla gestione della Ferrovia Roma Lido, i presupposti che ne sono alla base e cosa impedisca che quanto è accaduto (la regione Lazio, dopo aver avviato una procedura per acquisire proposte aventi come oggetto la gestione e la manutenzione della linea ed aver acquisito un’interessante offerta da parte di un’impresa francese, ha chiuso la procedura prorogando l’affidamento della gestione del servizio all’ATAC ed inserendo gli interventi di manutenzione nel contratto di servizio con RFI) possa in qualche modo ripetersi, nel 2019, al momento dell’affidamento dei servizi di trasporto passeggeri della città di Roma, con l’inevitabile concessione alla magistratura amministrativa di un ruolo necessariamente sempre più rilevante e preponderante.

La questione della necessità di un costante confronto sul merito consente di sottolineare un altro risvolto che l’iniziativa radicale può avere - come ha sottolineato spesso il segretario Riccardo Magi - anche e soprattutto al di là della cronaca e della politica romane. A prescindere dall’ambito e dal merito specifici dei quesiti in discussione, infatti, si possono trovare ulteriori buone ragioni per firmare se si guarda alla consultazione referendaria - ancora da rendere possibile - anche come ad un’occasione per giocare di nuovo, con argomentazioni ed in condizioni auspicabilmente diverse, la partita persa il 12 e 13 giugno 2011, quando il 95 per cento degli elettori che avevano deciso di andare ai seggi votarono per l’abrogazione dell’art. 23-bis del decreto legge 25 giugno 2008 n. 112, così come convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133 e successivamente integrato e modificato.

La norma abrogata conteneva, infatti, disposizioni in materia di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica - non solo, e forse sarebbe più corretto dire non tanto, del settore idrico - finalizzate a “favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione”.

Lo stesso articolo cassato, allo scopo sopraevidenziato, stabiliva che il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avvenisse, in via ordinaria, “a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica” oppure “a società a partecipazione mista pubblica e privata" a condizione che la selezione del socio avvenisse mediante procedure competitive ad evidenza pubblica aventi come oggetto sia la qualità di socio sia l'attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio e che il socio detenesse una partecipazione non inferiore al 40 per cento. E lo stesso art. 23-bis prevedeva, anche, che l'affidamento potesse avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico - la cosiddetta gestione in house - e dunque in deroga alle modalità di affidamento ordinario sopra richiamate “per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento" non avrebbero permesso un efficace e utile ricorso al mercato, e che in questo caso si sarebbe dovuto “dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un'analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato”.

Ferme restando le peculiarità romane e di una società come ATAC e la particolare complessità della normativa che regola il settore e delle logiche che possano assicurare un’appropriata gestione del servizio (dei servizi), il referendum promosso dai radicali - seppure solo consultivo e solo romano - può essere l’occasione per far sì che la logica alla base delle disposizioni abrogate nel 2011 riacquisiti agibilità e legittimità politica e, in caso di vittoria dei Sì, la possibilità di essere sperimentata e di trovare piena, ed in qualche modo esemplare, applicazione. Una consultazione referendaria sulle modalità di affidamento del servizio di trasporto pubblico di passeggeri a Roma avrebbe, dunque, anche il merito di riaprire quel confronto che i promotori ed i tanti sostenitori dei referendum del 2011 - anche grazie alla complicità degli oppositori e della loro scarsa capacità di mobilitazione e persuasione - hanno impedito con gli slogan “acqua pubblica”, “sull’acqua non si specula” etc.etc.

È evidente a tutti come quel mancato confronto - e quella sconfitta delle ragioni della concorrenza e del mercato - non abbia semplicemente cancellato l’art. 23-bis del decreto legge n. 112 del 2008 e quel che di positivo ed utile quella norma avrebbe potuto indurre sul piano di una più appropriata e trasparente gestione dei servizi pubblici locali, ma abbia anche concorso alla ridefinizione del quadro politico italiano.

Anche per questo non si tratta di ricercare rivincite, quanto piuttosto di far sì che quel confronto si (ri)apra e che abbia un esito diverso anche grazie alla disponibilità di gran parte di quegli elettori - il segretario del Partito Democratico Matteo Renzi tra gli altri - di tornare a riflettere sulle ragioni alla base di quella scelta, e di pronunciarsi, auspicabilmente, in un modo diverso nell’interesse dei cittadini romani e di quello, strettamente connesso, del resto degli italiani.