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Il libro di Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita (‘Giustizialisti. Così la politica lega le mani alla magistratura’, pref. M.Travaglio, PaperFirst, Roma 2017) è, in primo luogo, un'apologia della magistratura. Ora, si sa che le apologie sono più belle se a fartele sono gli altri: come quando Calamandrei scrisse, tanti anni fa, l'Elogio dei giudici scritto da un avvocato, o anche quando, tempo dopo, Borgna scrisse una Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore. Se invece l'apologia te la fai da solo, è tutta un’altra cosa.

Sotto le mentite spoglie di un saggio sullo stato della giustizia in Italia, il libro è invece un manifesto sindacale, con le tipiche rivendicazioni che questo genere letterario comporta: le ferie di settembre, la responsabilità civile, gli stipendi, l’età pensionabile… Questi sono i temi che stanno a cuore ai Nostri: il che va benone, a patto però di non spacciarle per “questioni che attengono al buon funzionamento della giustizia”.

Il libro si basa su un meccanismo monotono e martellante: i politici e i giornali dicono che la colpa per il fenomeno tale è dei giudici? E invece noi vi spieghiamo che è del legislatore, del Governo, dei politici, di chiunque, insomma, tranne che dei giudici. Naturalmente, non è che la magistratura abbia tutte le colpe. Ma, per Davigo e Ardita, i giudici non sbagliano mai; ad esempio, tra loro la corruzione non esiste, e le rare volte che una mela marcia capita, se ne sbarazzano rapidamente (a differenza di quanto fanno i politici coi loro pari): peccato che i casi di sanzioni disciplinari irrogate ai magistrati si contino sulle dita di una mano.

Sull’incompetenza o sul fancazzismo di molti giudici, di cui qualunque avvocato in Italia potrebbe parlare per ore, neanche una parola. I Nostri negano che la magistratura sia politicizzata, e del resto per loro i giudici, anche quando fanno politica, la fanno in una prospettiva “certamente non analoga a quella dei partiti, ma nel senso di politica alta e nobile, volta ad attribuire al giudice le prerogative della Costituzione”: i magistrati insomma sono antropologicamente diversi dai politici, che non a caso il prefatore Travaglio accusa di avere (sic) “il culo sporco.

Si resta francamente stupiti di fronte a ipostatizzazioni così ingenue: come si fa a presentare “magistrati” e “politici” come due blocchi omogenei, indifferenziati, senza sfumature? Davvero si può credere a una rappresentazione in bianco e nero, dove le virtù civiche e la ricerca del bene comune stanno solo da una parte e i vizi privati, la corruzione, l’avidità, la bramosia di potere solo dall’altra?

In altri Paesi (che, inspiegabilmente, i Nostri prendono spesso a modello), un libro del genere sarebbe inimmaginabile e non verrebbe tollerato: basti ricordare che, anni fa, un giudice francese che si era permesso di criticare una iniziativa legislativa del Parlamento - cioè quello che i nostri giudici fanno impunemente ogni giorno, tra i plausi dei media e anche di alcuni politici - venne sottoposto a procedura disciplinare e gravemente sanzionato per avere violato il principio della separazione dei poteri: principio, non a caso, sbeffeggiato da Travaglio nella sua prefazione. In Francia, infatti, la regola è che i magistrati non commentino né critichino le leggi, ma si limitino ad applicarle.

Il libro è composto di una sfilza di giudizi che sarebbe eufemistico definire discutibili. L’appello serve solo ad abbassare le pene e a far scorrere la prescrizione. Dalla Romania importiamo criminali perché in Italia non esiste deterrenza. I magistrati italiani sono i più produttivi del mondo. Le pene sono troppo basse. Le indagini equivalgono alle condanne, almeno per ricavarne conclusioni di massima sulla vastità della corruzione (“risultano indagati moltissimi esponenti politici”). La lunghezza dei processi sarebbe riducibile se eliminassimo l’obbligo di motivare le sentenze.

Le intercettazioni creano problemi e confliggono col diritto alla privacy? E che problema c’è: “se sia più importante scoprire questi fatti e garantire i diritti di tutte le parti, o preoccuparsi prevalentemente della privacy di chi li commette, è un giudizio che rimettiamo ai lettori”- dove non sfuggirà la disinvoltura con cui l’indagato (presunto innocente) diviene improvvisamente il colpevole.

Se poi le intercettazioni escono sui giornali, la colpa può essere di tutti, ma certo non dei magistrati: del resto esistono già gli strumenti per impedire le pubblicazioni (peccato però che non abbiano mai funzionato). Il processo accusatorio, all’americana, da noi conduce a risultati aberranti. Le prescrizioni sono troppo brevi. Il divieto di reformatio in pejus serve solo a ridurre la deterrenza. I termini di carcerazione preventiva vanno allungati. I delitti che destano maggior allarme sociale non sono quelli violenti e comuni, ma quelli finanziari e rari. Le carceri italiane poi sono “tra le più civili d’Europa”, servite da personale qualificato e capace.

Ma allora le condanne della CEDU per le condizioni disumane in cui sono gettati i carcerati italiani? Benché sia chiaro che per i Nostri il problema sia grandemente esagerato, tanto da generare un evidente fastidio (alla fin fine, scrivono, i detenuti “sono soggetti che comunque hanno violato le leggi”, un po’ di sovraffollamento gli sta pure bene), la soluzione per loro è semplice: costruire più carceri.

Del resto, il vero problema per i Nostri è che in prigione ci vanno troppo poche persone, e per troppo poco tempo: Davigo e Ardita si lagnano continuamente non solo dei provvedimenti indultivi, ma anche degli eccessivi sconti di pena per buona condotta, dell’entità dei risarcimenti concessi ai detenuti per via del sovraffollamento (“chi sta più stretto lo paghiamo come un dirigente”), e delle eccessive pretese dei carcerati e delle leghe per i diritti dei carcerati (a cui viene perfino, pensate!, concesso il diritto di iscriversi all’Università). Insomma, dal libro emerge una visione, indubbiamente un po’ vecchiotta, in cui le carceri servono solo come strumento afflittivo, anche perché poi, al dunque, i carcerati ripagano lo Stato con la più nera ingratitudine (“la maggiore opportunità concessa ai reclusi è stata ricambiata da questi con il raddoppio dei reati commessi in carcere”). Non è evidentemente un caso se i Nostri si scagliano anche contro la sola ipotesi che a torturare possa essere anche la Polizia (con la maiuscola): l’idea è inverosimile, scrivono, perché da noi “la Polizia non ha alcun potere di interrogare i detenuti”.

Il vero compito dei magistrati, secondo il libro, non è occuparsi di “fatti banali” bensì “dei reati della classe dirigente”. Venuta meno la contrapposizione di classe della società industriale, nella nuova realtà postindustriale quello che merita difesa non è più il proletario, bensì il “cittadino” che è “costretto a soccombere dinanzi agli abusi di un nuovo potere organizzato”: e chi dovrebbe difenderlo, se non i giudici? E i giudici, perciò, non devono applicare la legge, come ingenuamente credono i più: devono lottare contro i politici.

Dell’ipotesi di cancellare l’obbligatorietà dell’azione penale non se ne parla, però si riconosce volentieri che perseguire tutti i reati è impossibile: così il libro si limita a difendere il sistema attuale, in cui in teoria il magistrato persegue tutti i crimini, e in pratica agisce solo quando gli pare, però senza che vi siano criteri pubblicamente conosciuti e discussi, e magari decisi democraticamente (come accade altrove), per stabilire quali reati perseguire e quali no: così riuscendo brillantemente a cumulare il peggio di entrambi i sistemi.

Anche i confronti internazionali sono fatti alla garibaldina, ricordando solo quel che fa comodo. Per esempio, Davigo e Ardita opportunamente dimenticano che in Francia i magistrati inquirenti sono sottoposti a una rigida gerarchia nell’ambito del Ministero, mentre nei paesi anglosassoni i pubblici accusatori non sono giudici; in Francia i giudici vengono nominati per concorso, ma non sono inamovibili, mentre nei paesi anglosassoni sono sì inamovibili, ma vengono scelti dai politici (con modalità varie). L’unico sistema, tra i Paesi avanzati, che preveda l’assoluta mancanza di controllo degli altri poteri sulla magistratura sia al momento dell’ingresso nella professione sia nel corso della carriera è proprio il sistema italiano. E come insegna un aureo libretto di Carlo Guarnieri di una ventina d’anni fa (Magistratura e politica in Italia, Il Mulino), che i Nostri evidentemente non hanno letto, questo vuol dire, semplicemente, che la magistratura in Italia è l’unico potere che non conosce limiti né controlli, ed è esso stesso, di conseguenza, un pericolo per la democrazia e lo Stato di diritto.

A leggere libri come questo, si prova quello stupore che sempre accompagna i rivolgimenti culturali: una letteratura del genere, piena dei più vieti luoghi comuni forcaioli, costretta ad avvolgersi di paradossi per nascondere la realtà dei fatti, una volta la si trovava solo nella destra più reazionaria, mentre oggi ce la spacciano come una cosa di sinistra.

Le proposte di Davigo e Ardita non risolverebbero i problemi della giustizia italiana, e anzi in gran parte ci riporterebbero a un passato in cui, oltre a funzionare tanto male quanto oggi (e forse anche peggio), le garanzie processuali erano assai inferiori. Ma del resto, per poter avanzare proposte davvero incisive, bisognerebbe per prima cosa ricordare che tutte le riforme del sistema giustizia degli ultimi trent’anni siano state sistematicamente combattute dai magistrati.

È troppo facile ribaltare la colpa sul legislatore, che indubbiamente ha fatto poco e male. Ma dov’erano i magistrati quando si proponeva la separazione delle carriere o quando si proponeva l’abrogazione dell’obbligo di azione penale? E dove stanno i magistrati quando si propone una vasta depenalizzazione dei reati minori? Anche in questo il libro è, a dire il meno, deludente; zero proposte sul contenzioso civile (dove il problema è da affrontare con un aumento degli organici, da integrare anche con magistrati onorari ai quali, però, i magistrati si sono sempre opposti); zero proposte per ridurre la conflittualità fra le Procure (quella che decenni fa Domenico Marafioti ribattezzò la “Repubblica dei procuratori”) e la difformità di sentenze fra giudici diversi (visto che tutte le proposte per gerarchizzare gli uffici dell’accusa o per incrementare i poteri della Cassazione sono state affondate, negli anni, proprio dai magistrati).

Per poter scagliare le pietre agli altri occorrerebbe prima, come diceva Uno che di giustizia se ne intendeva, essere senza peccato.