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Confrontare le pere con le mele, gli stock con i flussi, misurare le distanze con unità di peso: il dibattito scientifico è ben attrezzato per smascherare nel merito chi si lancia in disquisizioni fallaci, traendo conclusioni assurde da premesse di metodo grossolanamente sbagliate. 

Purtroppo lo stesso non avviene quando si toccano questioni politiche e sociali delicate, come quella dei migranti. La confusione intenzionale tra pere e mele tende a diventare in questo caso strumento deliberato di lotta politica e di ricerca di facile consenso (anche personale, funzionale magari di raccattare qualche "like" a buon mercato sui social con qualche battuta appassionata), e pazienza se le opinioni diffuse sono infondate e polarizzate nel solito scontro grottesco, del tutto privo di pertinenza rispetto ai problemi, tra hooligans del respingimento e missionari dell'accoglienza.

Nel caso dei migranti, il dibattito pubblico italiano - tornato ad accendersi in questi giorni dopo le affermazioni, prive di qualsiasi evidenza o riscontro fattuale, di alcuni procuratori sui presunti contatti tra alcune Ong che operano i salvataggi in mare, e i gestori del racket delle traversate - sconta, da sempre, una grave confusione di fondo: quella tra il problema del soccorso in mare - che è un dovere legale, oltre che morale - e quello dell'accoglienza e dell'integrazione, che invece è una materia di scelta politica.

Il soccorso in mare è un obbligo prescritto dalle leggi internazionali e nazionali, per una ragione elementare: riguarda il salvataggio di vite umane in una situazione in cui non hanno scampo e non sono in condizioni di mettersi in salvo. Il mare è un ambiente estremo, dove la sopravvivenza dipende interamente dalla buona condizione e dal buon funzionamento delle imbarcazioni e delle tecnologie di navigazione, e dal loro corretto utilizzo. In caso di avaria, o peggio di naufragio, tutte le speranze di vita risiedono nell'arrivo dei soccorsi, esattamente come avviene per chi rimane sepolto sotto le macerie di un terremoto, o è vittima di una catastrofe o incidente di qualsiasi sorta.

Nel diritto internazionale marittimo, il soccorso in mare è disciplinato soprattutto da tre atti: la convenzione per la salvaguardia della vita umana in mar (Solas) del 1974), la Convenzione sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, del 1979 (Sar) e la Convenzione ONU sul Diritto del Mare del 1982 (Unclos). Si prescrive l'obbligo per il comandante di un'imbarcazione di prestare rapidamente assistenza a coloro che si trovano in pericolo in mare di cui ha avuto notiza, senza distinzioni relative alla loro nazionalità, allo status o alle circostanze nelle quali essi vengono trovati. Questo dovere è limitato, in generale, solo dal rischio di pericolo per i soccorritori. Per quanto riguarda le acque territoriali italiane, il Codice della navigazione stabilisce perentoriamente (art. 1113 e 1158) che l'omissione di soccorso è un reato.

Queste considerazioni dovrebbero aiutare a comprendere che portare in salvo persone umane da un pericolo gravissimo di vita è una questione di natura diversa dal problema dell'accoglienza e dell'integrazione dei migranti. Il primo è un dovere in ogni caso: e sorprende che ci sia chi non lo dà per scontato per i migranti, così come avviene ogni volta che c'è una qualche catastrofe con morti e feriti. L'accoglienza e l'integrazione sono invece temi di scelte politiche di fondo in una comunità, che dovrebbero essere portate avanti in modo razionale e lungimirante dai decisori pubblici, dopo un opportuno dibattito di merito, relativo ad esempio ai costi e benefici dell'inserimento di grandi gruppi di popolazione, o alla compatibilità di alcune tradizioni o dottrine religiose con la vita in una società libera. Mescolare questi due aspetti - il soccorso, e l'accoglienza - equivale appunto a confrontare le pere con le mele, quali che siano le intenzioni - mosse da ingenuità, ignoranza, o deliberata disonestà intellettuale strumentale a secondi fini - di chi contribuisce a generare questa confusione.

Il risultato è che si getta benzina sul fuoco dell'isteria populista delle varie fazioni: da una parte, degli 'hooligans del respingimento' e del loro razzismo mascherato sotto sillogismi farlocchi, come quello sugli incentivi a migrare generati dalle operazioni di soccorso; dall'altra sull'altruismo irresponsabile dei 'missionari dell'accoglienza', che bollano come fobia intollerante qualsiasi considerazione sui fenomeni migratori diversa da un'accoglienza senza se e senza ma: ad esempio sull'utilità di politiche di gestione di flussi migratori incontrollati, sulla lotta al racket delle traversate, o sull'opportunità dell'accoglienza dei "migranti economici" che provengono da paesi poveri ma politicamente stabili e riconosciuti dalla comunità internazionale.

Ma si sa che l'Italia, come diceva Montanelli "è un Paese di contemporanei, senza antenati nè posteri", in cui ciascuno guarda al consenso immediato, con ritorno tangibile in termini di polemica politica o di like nei sociali, fregandosene delle conseguenze sul lungo termine.