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Stamattina, mentre andavo a piedi a lavoro – perché per colpa dell’adesione di numerose sigle sindacali allo sciopero contro le discriminazioni di genere l’azienda di trasporti pubblici romana ha decimato il già scarno servizio – ho pensato di dare un’occhiata alle motivazioni dello sciopero. Ho trovato su Vice un’intervista a Sara Picchi, attivista e membro del gruppo “Non una di meno”, che ha organizzato lo sciopero. 

Alcune delle rivendicazioni sulla pagina dell’organizzazione sono assolutamente fondate: la richiesta del rifiuto della violenza e di una giustizia più efficiente per renderlo effettivo, libertà di movimento, rifiuto di linguaggio discriminatorio. Alcuni sono peregrini, come un reddito di autodeterminazione per essere libere dal mercato, libertà su cui torneremo più avanti.

Uno dei punti sollevati è che "in un contesto di neoliberismo avanzato, in un momento di crisi pazzesca, con un'austerità feroce in cui si bloccano i finanziamenti per le politiche sociali, la sanità, la scuola", la conseguenza di questi tagli ricade più pesantemente sulle donne. I tagli ai servizi pubblici danneggiano maggiormente le donne: questo dipende dal fatto che ancora oggi la ripartizione fra lavoro pagato e non pagato è iniqua. In parole semplici, sono principalmente le donne a occuparsi di pulire casa e della cura di bambini e familiari in difficoltà (in statistiche, potete leggerlo qui o qui). Ora una persona di buon senso si chiederebbe se è opportuno indire uno sciopero dei servizi pubblici con la consapevolezza che danneggerà principalmente le donne, ma il buon senso è spesso sacrificato sull’altare dell’ideologia. Infatti la Picchi aggiunge anche “la protesta si propone di essere palcoscenico soprattutto delle precarie, delle disoccupate, delle studentesse, delle migranti e delle pensionate. Ovvero di quelle fasce della popolazione che vedono limitata, se non negata, la propria possibilità di scioperare, ma si ritrovano spesso a subire le più pesanti conseguenze dello sfruttamento professionale e a farsi carico della maggioranza degli impegni domestici e familiari.

Certo: perché una precaria o una migrante oggi potrà non presentarsi a lavoro, o una studentessa non studiare, il loro lavoro e le loro scadenze non le attenderà domani – se io non mi mettessi al lavoro, oggi, semplicemente farei ricadere il mio carico sulla mia coautrice, e sulla coordinatrice del progetto che seguo e che si è impegnata a consegnarlo a fine settimana. È palese lo scollamento di chi organizza uno sciopero di questo tipo dalla realtà di chi lo vive - e dovrebbe beneficiarne.

La colpa dei tagli, ça va sans dire, è del neoliberismo selvaggio: nel caso, vorrei garantire agli scioperanti che in quanto umile rappresentante del neoliberismo selvaggio so individuare molte occasioni migliori di tagli alla spesa pubblica, visto che al momento in Italia spende più o meno l’1% del PIL per servizi alle famiglie, 22° posto tra i Paesi Ue, che comunque in media spendono l’1,7% . Il fatto che in un paese in cui più della metà della ricchezza è intermediata dalla politica si spenda solo l’1% per i servizi dovrebbe far capire che chi discrimina le donne – e anche i poveri e i migranti – non è il mercato, ma lo Stato. Il quale evidentemente decide di destinare le risorse che sottrae agli usi volontari con la tassazione a ben altre finalità (come proteggere monopoli e gruppi di interesse che li sosterranno politicamente).

Non solo attraverso la spesa, lo Stato discrimina spesso attraverso la regolamentazione: l’ultimo Economic Freedom of the World del Fraser Institute dedica un capitolo a misurare le restrizioni formali all’accesso delle libertà economiche, che impediscono alle donne di partecipare al mercato al pari degli uomini. Ma ovviamente, se il problema è per definizione il capitalismo e lo scambio, tutta l’energia di chi si occupa di questi temi si concentrerà su altro.

Infine, norme sociali e pregiudizi contribuiscono a esacerbare il problema: il fatto che le donne decidano più raramente (per fortuna sempre meno) di intraprendere studi – come quelli di area STEM – che le porteranno a ottenere lavori più remunerativi, e l’iniqua ripartizione del lavoro non pagato nelle mura domestiche, che le mette in condizione di dover scegliere lavori meno retribuiti. Norme sociali e pregiudizi non si cambiano con un colpo di legislazione, sono un problema complesso e di difficile soluzione. Ma se si crede che la colpa è sempre del capitalismo, allora si riducono le possibilità di trovare una soluzione. È come continuare a spiegare i tumori con sbilanciamenti del tasso alcalino o traumi ed energie negative: la risposta diventa la spremuta di limoni e la meditazione trascendentale, e tutte le risorse che potevano essere utilizzate per la ricerca di una cura migliore si spostano su corsi di meditazione e coltivazioni di agrumi, senza curare nessuno.

La Picchi suggerisce che questo sciopero deve essere, novella Lisistrata, riproduttivo oltre che produttivo: "in pratica, una giornata in cui astenersi da tutti i lavori di casa e di cura molto spesso ancora appannaggio esclusivo delle donne. Niente lavatrici o lavastoviglie. Non si va a fare la spesa e non ci si fa carico di cucinare per altri."

Beh, io questo sciopero posso farlo tutti i giorni: proprio grazie a quel selvaggio capitalismo, una struttura basata sulla divisione del lavoro per cui qualcuno mi paga per quello che faccio, e io a mia volta posso pagare qualcuno che è disposto a mantenersi facendo le mie lavatrici. Ancora, questi compiti domestici sarebbero molto più onerosi, perché senza il capitalismo banalmente non ci sarebbe stata l’innovazione che ha permesso a tutti di utilizzare lavatrici e lavastoviglie.

In un sistema non capitalistico, l’unità produttiva che consente la sussistenza è la famiglia, e le donne sono relegate ai loro compiti di fatica domestica – senza la possibilità di mantenersi autonomamente nel caso la famiglia si riveli luogo di violenze. Secondo Federico Morganti, “non fa più notizia osservare che la possibilità d’avere un lavoro ha reso le donne più indipendenti all’interno dei nuclei familiari, e che quest’indipendenza guadagnata a fatica sul piano economico si sia tradotta in un più ampio ventaglio di scelte: di fatto, in una maggiore libertà. L’aumento della ricchezza familiare ha favorito la transizione verso una forma di matrimonio incentrata sempre di meno sulle necessità economiche e sempre di più sui sentimenti delle persone. Una trasformazione che non poteva che giovare in prima istanza a colei che storicamente è stata il soggetto più debole – perché più vincolato – dell’accordo matrimoniale. Ancor oggi, per le donne povere è molto più difficile rifiutare un matrimonio di quanto non sia per le donne benestanti: significa che il benessere ha reso effettiva una scelta che in precedenza era stata libera solo sulla carta”.

L’altro motivo per cui io posso scioperare ogni giorno è perché ho scelto un uomo che crede nella divisione del lavoro anche in casa, e si impegna ogni giorno per renderla più facile non (tanto) perché io sennò sciopero, ma perché sa che è la cosa giusta. Se ciò che blocca le donne sono convenzioni sociali e pregiudizi, non dobbiamo combatterli spremendo tre limoni, ma con un impegno costante a cambiare la cultura. Educando i figli, maschi e femmine, alla responsabilità condivise. Scegliendo uomini rispettosi e responsabili, e lottando ogni giorno perché la divisione dei compiti sia più equa: probabilmente una vita difficile, spesso è più facile passare lo straccio che litigare su chi deve farlo. Ma nessuno ha detto che la via per l’eguaglianza sarebbe passata per un giardino di rose, o di mimose. E sicuramente, ripetere ogni anno che c’è un ovvio colpevole e una soluzione facile non aiuta a intraprendere questa direzione.