madreteresa

Nello sterminato ospedale da campo che il Papa vuole sia la sua Chiesa "povera e per i poveri" non si può che rendere omaggio alla santità di Madre Teresa di Calcutta. La suora ieri canonizzata - una dei tanti (forse troppi?) "Santi subito!" della Chiesa del nuovo millennio - non è però solo una figura coerente con il messaggio del pontificato bergogliano, ma è anche e forse ancora di più l'icona di un'idea pre-contemporanea e perfino pre-conciliare di servizio ai bisognosi e ai sofferenti.

Quando Hitchens, che la disprezzava, diceva che era amica della povertà e non dei poveri, diceva senza volerlo qualcosa di vero anche per chi ha amato il suo amore per gli ultimi e la sua devozione a un'umanità perduta e moribonda, come espressione più autentica e radicale dell'esempio cristiano e della militanza evangelica.

Con Bergoglio si potrebbe sostenere che Madre Teresa ha restituito dignità alle vittime della "cultura dello scarto", ma per le stesse ragioni la si è potuta accusare non di "avere messo i potenti di fronte alle loro colpe", come ha detto ieri il Pontefice, ma di avere esercitato un'ideale di carità che onorava la malattia e la povertà, ma non le combatteva, che le accudiva, ma non le curava, che le accompagnava, ma non le guariva, interpretandole al contrario come segni della "vicinanza di Dio" e mezzi di redenzione del mondo dal peccato.

La sua ostilità anti-femminista non solo contro l'aborto e il divorzio, ma contro qualunque politica di controllo delle nascite - in un Paese come l'India in cui la miseria si legava e lega indissolubilmente alla sovrappopolazione e all'irresponsabilità procreativa - la rende oggi, vista da vicino, l'espressione di un'altra e lontana stagione politica e teologica, in cui anche il dolore poteva ancora essere presentato e fatto accettare come dono, e non come scandalo e la malattia - sopratutto la malattia - come un crisma e non come un'offesa al desiderio di felicità e di vita e alla sacra umanità dei corpi. Non solo la rinuncia imposta a sé, per amore del prossimo, ma la rinuncia richiesta al prossimo, per amore di Dio: questa è l'ambiguità che rende a molti occhi oggi - e oggi più di ieri - la sua figura quantomeno problematica.

Non suoni blasfemo contrapporre a questa "ideologia della rinuncia" l'esempio di Don Verzè. Non della sua figura, decisamente controversa, ma della sua impresa di carità fondata sul presupposto uguale e contrario, quello della cura come scienza e non come lenimento, e dell'interpretazione della malattia (e perfino della mortalità) come una sfida, che esige dall'uomo l'impegno morale e razionale di restituire la vita alla salute e quindi di scoprirne i segreti e di "manovrarne" i codici, in una sorta di alleanza con Dio nel disegno di salvezza dell'uomo. Questa carità che nella Chiesa ratzingeriana molti accusavano di derive pericolosamente "anticristiche" ha fondato e spericolatamente guidato, finché don Verzè è stato in vita, uno degli ospedali più importanti del mondo, aprendo e tenendo aperto un varco nella dottrina dei valori non negoziabili sui temi della libertà di ricerca scientifica e di cura e perfino dell'eutanasia.

Si tratta, evidentemente, di carismi diversi, che in una logica religiosa non ha senso contrapporre, ma che in una chiave storica occorrerebbe valutare laicamente. Per concludere magari - neppure troppo scandalosamente - che Don Verzè appartiene assai più di Madre Teresa ai "tempi nuovi" dell'umanesimo cristiano.

@carmelopalma