Auschwitz

Con 237 voti favorevoli, 5 contrari e 102 astenuti, la Camera ha approvato la proposta di legge sul cosiddetto “negazionismo”. Si tratta di una modifica all’articolo 3 della legge n. 634 del 13 ottobre 1975, che vieta ogni “organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Il testo approvato dalla Camera stabilisce la “reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l'istigazione e l'incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra”.

In sostanza, il nuovo provvedimento introduce, se non un nuovo reato, una nuova aggravante, inasprendo le pene per chi si renda colpevole di certi comportamenti sulla base della negazione dell’olocausto o di altri genocidi. È giusto che lo stato intervenga con norme che penalizzano idee e convinzioni giudicate immorali?

Per cominciare, se la libertà di parola è inalienabile, lo è a prescindere dai contenuti particolari; qualsiasi intervento legislativo che intenda distinguere le idee lecite da quelle illecite costituisce come tale una violazione di quella libertà. Che certe opinioni siano odiose e moralmente aberranti – com’è certamente il caso del negazionismo – non comporta che lo Stato abbia il compito di impedirne la circolazione nell’illusione di poter correggere le storture morali dei suoi cittadini. Quando parliamo di “Stato” parliamo pur sempre di un gruppo di individui particolari, che non possiedono alcuna speciale saggezza morale che permetta loro di sostituirsi paternalisticamente alle teste degli individui. Nel momento in cui lo stato è investito del compito di normare le opinioni dei cittadini, si genera il rischio che lo faccia secondo un punto di vista e una sensibilità particolari. Con la possibile conseguenza, ad esempio, che certe forme di razzismo, genocidio o dittatura sanguinaria siano considerate dalla legge più gravi di altre.

L’idea che lo Stato non abbia il diritto di punire l’espressione di idee immorali deriva, com’è ovvio, da una concezione dello Stato di stampo liberale. Ma anche senza condividere tale impostazione è possibile dubitare non soltanto dell’efficacia ma anche della necessità dello strumento legislativo. La società civile possiede già gli anticorpi necessari per contrastare il negazionismo e altre opinioni perniciose.

Chiunque intenda sostenere pubblicamente tesi negazioniste farebbe un enorme fatica a trovare un pubblico che lo ascolti: ben poche università lo accetterebbero come speaker, se non al solo scopo di metterlo alle corde, ed egli sarebbe condannato – se ha fortuna – a pubblicare i suoi libri con oscure case editrici con poco o nessun mercato. La sua voce sarebbe quasi inascoltabile e, qualora gli sia concessa l’occasione di esprimersi, le sue parole – come dimostra la recente intervista allo storico negazionista David Irving – suonerebbero più ridicole che pericolose. Nel caso in cui gli anticorpi “naturali” fossero assenti o inefficaci, non esisterebbe purtroppo alcun “vaccino” legislativo in grado di farne le funzioni. Dove non riescono gli strumenti culturali – l’istruzione, l’informazione, il confronto tra idee – difficilmente saranno efficaci il divieto e la censura. L’introduzione del reato di negazionismo in paesi come Germania, Austria e Francia non ha del resto impedito il proliferare di movimenti xenofobi e antisemiti.

In effetti qualsiasi tentativo di mettere a tacere un’opinione, qualunque essa sia, rischia di nuocere non soltanto a chi la sostiene, ma anche a coloro che ne dissentono. In quella che resta una delle più efficaci perorazioni della libertà d’espressione, John Stuart Mill (On Liberty, 1859) osservava che se le persone sono private della possibilità di scontrarsi con l’errore, le loro convinzioni saranno condannate a diventare lettera morta, vuote formule reiterate per abitudine, prive della capacità di difenderle con argomenti. “Quando la mente non è più costretta come lo era all’inizio a esercitare le sue forze vitali sulle questioni che il proprio credo le sottopone, si tende progressivamente a dimenticarne tutto tranne le formule, o a darle un assenso opaco e apatico, quasi che accettarla sulla fiducia dispensasse dalla necessità di prenderne piena consapevolezza o di metterla sul banco di prova della nostra esperienza personale: e da ultimo, finisce per spezzarsi quasi completamente qualunque suo legame con la vita intima dell’essere umano”.

Nel momento in cui si domanda allo stato di bandire certe idee, si rende più difficile alle persone trovare il modo di metterle alla prova, di respingerle sulla base del proprio stesso esame. L’individuo non ne riceverà che opinioni già masticate e digerite, che in nessun modo potrà chiamare “sue”, e apprenderà che certe cose sono false perché sostenerne il contrario è vietato dalla legge.