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Non ancora spentasi l’eco delle critiche della Corte dei Conti, è opportuno tornare sul cosiddetto “otto per mille”, accusato di scarsa trasparenza, poca equità, inefficienza, e altro ancora.

Si tratta di un meccanismo a grandi linee abbastanza noto, che possiamo qui ripercorrere brevemente: con una scelta fatta nella dichiarazione dei redditi, ciascun contribuente può optare per la destinazione di una quota del gettito Irpef a un ente (lo Stato italiano, la Chiesa cattolica, o un’altra confessione religiosa che abbia stipulato un accordo in tal senso con lo Stato) il quale sarà tenuto a utilizzarlo in attività aventi una connotazione in senso lato sociale, umanitaria, caritatevole, e così via. E in caso di mancata opzione, il gettito andrà comunque ripartito tra gli enti accreditati, proporzionalmente al numero dei soggetti che hanno manifestato la loro scelta.

La facoltà di opzione può far pensare a una liberalità dei cittadini-contribuenti, a un volontario trasferimento di somme dalla sfera dei privati a quella di enti impegnati in attività caritatevoli o comunque socialmente utili. Così del resto la legge sull’otto per mille era stata presentata nel 1985, al momento in cui fu concepita. Il Presidente del Consiglio dell’epoca aveva affermato che con l’otto per mille veniva “agevolata la libera contribuzione dei cittadini”. In realtà, non si tratta affatto di una contribuzione “libera”, e semmai dovremmo parlare, incorrendo in un ossimoro, di una “donazione obbligata”.

Il punto è che l’otto per mille non funziona come una tax expenditure, cioè una deduzione dalle imposte sul reddito altrimenti dovute, con cui lo Stato agevola la promozione di determinati fini sociali, culturali, religiosi, mercè uno sconto di imposta; si tratta invece di un meccanismo che opera a valle dell’acquisizione del gettito, quando cioè l’imposta dovuta dai contribuenti è già stata giuridicamente acquisita alle casse erariali. La scelta per la destinazione dell’otto per mille si riferisce a una quota dell’imposta, ma in realtà riguarda la sua destinazione, cioè il lato della spesa.

L’otto per mille ritaglia insomma, in seno al complessivo gettito Irpef, un “tributo di scopo”, lasciando che i contribuenti decidano come ripartire tra i possibili enti destinatari una quota dell’Irpef che andrà a finanziare (almeno in teoria) prestabilite finalità ritenute meritevoli di tutela da parte del legislatore (dagli aiuti umanitari all’edilizia scolastica, dagli scopi caritatevoli al sostentamento del clero). Mi pare chiaro, insomma, che si tratta di denaro pubblico, di somme già contabilizzabile nel bilancio dello Stato, e non di contributi spontanei e liberalità che transitano dalla sfera dei privati a quella delle confessioni religiose (o dello Stato stesso). E se per certi aspetti è vero, come diceva Margaret Thatcher, che “non esiste il denaro pubblico, esiste solo il denaro dei contribuenti”, non vi è dubbio che la scelta per la destinazione dell’otto per mille cade su somme già entrate a pieno titolo nel bilancio dello Stato, cioè entrate pubbliche la cui destinazione è a tutti gli effetti “spesa pubblica”. Usando un’iperbole, se si considera che la Chiesa cattolica è la principale destinataria del gettito, lo Stato italiano si comporta di fatto da “sostituto d’imposta” ed esattore per conto terzi, compiendo un atto di sudditanza e autocolonialismo.

Il carattere illusorio di quella che è stata propagandata come una “libera contribuzione dei cittadini”, emerge poi anche da altri elementi: da un lato, infatti, la mancata opzione non impedisce l’effetto destinatorio del gettito, che avverrà sulla sola base delle scelte compiute, quand’anche assolutamente minoritarie. Anche nel caso limite in cui un solo contribuente esercitasse l’opzione, l’intero otto per mille della nazione verrebbe devoluto all’ente indicato da quel singolo contribuente. Dall’altro lato, la scelta dei singoli si riferisce in realtà non all’Irpef individuale dovuta, bensì ad una quota media dell’Irpef complessiva, per cui chi ha un elevato debito Irpef non potrà in realtà affatto deciderne l’integrale destinazione (limitatamente all’otto per mille, s’intende), e viceversa chi ha un debito meno elevato o addirittura non paga affatto imposte, potrà comunque concorrere a indirizzare l’utilizzo dell’imposta dovuta da altri.

A fronte di questi elementi, che pongono in crisi l’idea stessa della democraticità e libertà delle scelte destinatorie, si obietta che il meccanismo dell’otto per mille sarebbe del tutto simile a quello del voto popolare, per cui l’elezione dei rappresentanti in Parlamento avviene a prescindere dal numero dei votanti, e proporzionalmente ai voti effettivamente espressi. Quest’analogia nasconde tuttavia un paralogismo: nel voto elettorale, non vi è infatti alternativa alla nomina di un certo numero di rappresentanti, che sarebbe impensabile far dipendere dal numero di voti espressi; inoltre, il voto è “uguale”, mentre nella destinazione dell’otto per mille chi più contribuisce meno può destinare, e viceversa. Ma soprattutto, quel che non si comprende è perché non sia data coerentemente rilevanza, nel contesto delle dichiarazioni dei redditi, al non-voto, cioè alla mancata opzione, il cui più chiaro significato è la volontà del singolo di destinare la “quota” di cui si dispone a tutte le altre finalità affidate alla cura dello Stato, diverse da quelle sottese dalla legge sull’otto per mille.

Al di là delle criticità evidenziate dalla Corte dei Conti in ordine alla scarsa trasparenza nell’utilizzo del gettito, e a veri e propri fenomeni di diversione dello stesso a scopi estranei a quelli cui dovrebbero essere asserviti i fondi dell’otto per mille, c’è poi una ulteriore ragione che dovrebbe indurre a ripensare l’intero meccanismo: i tributi di scopo, qual è l’istituto in esame, rischiano infatti di produrre inefficienza allocativa, nella misura in cui un certo gettito dovrà comunque essere utilizzato per il conseguimento di fini determinati tassativamente. Nei tributi di scopo, che prevedono un vincolo di destinazione delle risorse raccolte, gli interventi pubblici e i connessi livelli di spesa non sono stabiliti in anticipo, bensì a posteriori: anziché fissare in partenza il livello di spesa ritenuto desiderabile dalla collettività per la erogazione di servizi e il sostenimento di spese secondo parametri di equità, efficacia ed efficienza, a guidare l’intero processo amministrativo e di bilancio è la previa determinazione dell’entrata, che una volta acquisita potrà essere impiegata soltanto per i fini stabiliti dalla legge istitutiva del tributo.

Ne possono così derivare situazioni sub-ottimali, non tanto nel caso di deficit delle entrate connesse al tributo di scopo rispetto alle spese che l’ente ritiene di dover prioritariamente finanziarie - giacché in tale evenienza ben potrebbero essere utilizzate altre risorse e il gettito di altri tributi - quanto nel caso di eccedenza delle entrate “di scopo” rispetto a una ragionevole scala di priorità nell’effettuazione delle spese e degli interventi pubblici, e delle stesse necessità palesate dai fini indicati dal legislatore. Proprio quel che accade con il gettito dell’otto per mille: questo, ideato soprattutto per garantire il sostentamento del clero, eccede ormai di gran lunga lo scopo, finendo così soltanto, come ammonisce la Corte dei Conti, per contribuire “ad un rafforzamento economico senza precedenti della Chiesa italiana”.