Pistola spara

A seguito di un recente caso di cronaca - a cui hanno furbamente fatto eco certa stampa e certa politica - si è deciso di orchestrare un’ondata di indignazione per l’apertura di un procedimento per omicidio volontario a carico di una persona che ha affermato di essersi difesa, nel proprio domicilio, facendo fuoco su quello che appariva essere un malintenzionato. Nondimeno, l’operato della Procura, in questo caso, si è dimostrato doveroso, giuridicamente corretto e intrinsecamente giusto.

Doveroso, perché l'azione penale è obbligatoria e, con un morto per colpi di arma da fuoco, procedere per omicidio è un atto dovuto. A mente dell’art. 408 del codice di procedura penale, l’archiviazione può essere domandata dal Pubblico Ministero solo se la notizia di reato è infondata. Nel caso di specie, è difficile escludere la fondatezza della c.d. notitia criminis davanti a un cadavere. Quanto alla qualificazione da dare al fatto, sarà eventualmente l’indagine ad escludere man mano le ipotesi di reato più gravi a seconda delle prove raccolte.

Corretto, perché l'indagine non può che essere per omicidio volontario e non per eccesso colposo di difesa, posto che sarà semmai l'inchiesta a far luce sulla sussistenza seppur teorica della scriminante. Al massimo, se ne darà prova in giudizio, nel contraddittorio delle parti. La difesa, prevedibilmente, punterà all’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, poiché scriminato dalla legittimità della difesa. In via subordinata, sarà la difesa stessa a sfruttare la via sanzionatoria più “benevola” dell’eccesso colposo, per chiedere, nella denegata ipotesi in cui il giudice non intendesse ravvisare la sussistenza dei requisiti di legge per l’applicazione della scriminante, di riqualificare il fatto come (omicidio) colposo.

Giusto, perché se dovessimo affidarci ai PM che, in solitudine, discrezionalmente "assolvono" chi si fa giustizia da sé, senza nemmeno un processo, vivremmo in un paese meno sicuro di quello in cui viviamo.

In generale, ogni volta che si verifica un episodio di cronaca nera più o meno riconducibile alla difesa legittima, scatta uno psicodramma collettivo sul semplice fatto che questa debba essere equamente accertata, con un procedimento in contraddittorio tra la pubblica accusa e la difesa, in cui a decidere deve essere un giudice terzo, imparziale e costituito per legge. È evidente che al cittadino sfugge qualcosa sul funzionamento di questo istituto vigente da sempre in tutti gli ordinamenti, non solo in ambito penale. Anche in Italia.

Con questo modesto scritto di carattere divulgativo su un istituto che presenta problematiche enormi, impossibili da trattare efficacemente in questa sede, si intende solo accendere una piccola luce riguardo alcuni termini che periodicamente (e tristemente) squarciano l’opinione pubblica con problemi talvolta falsi, forzati o addirittura fuorvianti.

Di cosa parliamo quando parliamo di legittima difesa

Schematicamente, si deve ricordare che la difesa legittima, disciplinata dall’art. 52 del codice penale, rientra tra le cause di giustificazione del reato (dette anche scriminanti o esimenti). Si tratta di una circostanza che, stante la sussistenza di tutte le caratteristiche del fatto umano previsto e punito come reato, sia nella loro componente oggettiva, sia in quella soggettiva, ne esclude l’antigiuridicità, cioè quel disvalore da cui l’ordinamento fa discendere la qualificazione di una certa condotta come reato. Questo perché sarebbe contraddittorio costringere il cittadino a sopportare una determinata offesa, qualora lo Stato non sia in grado -in un certo tempo o contesto- di scongiurarla secondo legge. Si ricordi, in tal senso, il latino Vim vi repellere licet.

Qualora un diritto o una qualsiasi altra situazione giuridica di vantaggio, anche di una terza persona (c.d. soccorso difensivo), sia oggetto di una offesa ingiusta (ossia non permessa dall’Ordinamento giuridico) di matrice umana o di altro animale sotto la vigilanza umana, lo Stato tollera che si reagisca contro il responsabile. Questo perché, tra l’interesse del soggetto aggredito e l’interesse di chi si è volontariamente posto contro la legge, lo Stato ritiene prevalente il primo, tanto da concedere alla vittima dell’aggressione un ambito residuale di autotutela che surroga l’intempestività dell’intervento preventivo della forza pubblica.

È da rammentare che si tratta di autotutela e non di giustizia privata: quest'ultima non trova spazio alcuno nel diritto penale, né in Italia né altrove. Pertanto, il legislatore del codice del 1930 (firmato Mussolini – Rocco) ha stabilito che il pericolo dal quale difendersi debba essere attuale. Sempre lo stesso legislatore ha precisato che la reazione difensiva contro l’aggressore, per considerarsi legittima, debba essere necessaria e proporzionata.

Proporzionalità tra difesa e offesa
Da sempre si discute sulla proporzionalità tra difesa ed offesa. Tant’è che, stando a un primo orientamento, il confronto è da operarsi sui mezzi reattivi e mezzi aggressivi (Cass. 1262/69). Stando a un secondo orientamento, il confronto deve riguardare i beni e gli interessi messi in pericolo dal reagente e dall’aggressore (Cass. 47117/09). A complicare il quadro, si aggiunge una generale difficoltà probatoria riscontrabile in casi come quello in discussione, che normalmente vedono la presenza di un soggetto impaurito e colto di sorpresa, in ansia per la propria incolumità e che potrebbe essere frenato nella reazione dal timore di una legge che, nei fatti, finisca con l’essere gravosa nella distribuzione dell’onere della prova, fino a dar luogo ad un vantaggio per gli aggressori e a un difetto di tutela per le vittime.

È per alleviare l’onere probatorio sulla sussistenza della scriminante che al già menzionato art. 52 sono stati aggiunti due commi, con legge del 13 febbraio 2006, n. 59 (firmata Berlusconi) in materia di autodifesa in privato domicilio (a cui si equipara qualsiasi luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale). In quest’ambito, a certe condizioni che vedremo di seguito, sussiste il rapporto di proporzione, stando alla lettera della riforma. Ovvero, la proporzionalità è presunta per legge.

Più precisamente, si sottrae al giudice qualsiasi esame comparativo tra il tenore dell’offesa e il tipo di reazione, a condizione che si adoperi un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo a difendere la propria o l’altrui incolumità o anche solo i beni propri o altrui qualora non vi sia desistenza e sussista un pericolo di aggressione. L’idea di fondo è che sia necessario rifuggire dall’eccessiva discrezionalità del magistrato, evidentemente ritenuta pericolosa, nel valutare un requisito così vago, quantomeno in un caso particolare come la difesa nel proprio domicilio. Senza voler indugiare sulla levata di scudi dottrinale contro la legge di modifica del 2006, sulla sua opportunità e sui suoi frutti (empiricamente percepibili da chiunque), è il caso di ridurre il nostro esame alle condizioni tuttora vigenti nella reazione a un pericolo derivante da violazione di domicilio, trattandosi della casistica di maggior esposizione mediatica.

Attualità del pericolo
Come anticipato innanzi, il pericolo di aggressione deve essere attuale. Questo significa che l’offesa deve essere concreta ed imminente. Semplicemente, deve trattarsi di una condotta che non sia frutto di mera possibilità o di un’ipotesi astratta, ma significativa sul piano dell’altamente probabile. In particolare si esclude che possa essere legittima la reazione a un pericolo futuro o a un pericolo cessato.

È intuitivo il perché: nel primo caso non si può demandare al singolo un compito di prevenzione della criminalità, e non si può d'altronde neppure consentire, nel secondo caso, che la vittima diventi un soggetto preposto dall’ordinamento per fare arbitrariamente giustizia una volta che l’aggressione è volta a termine o si è interrotta. Prima del concretizzarsi del pericolo, di fatti, si può impiegare ogni mezzo utile per evitarlo o per rivolgersi alle Autorità competenti. Conclusa l’azione pericolosa, invece, la rincorsa o il colpo esploso contro il delinquente in fuga non sono considerabili alla stregua di possibili forme di difesa, essendo cessato il pericolo di aggressione (Cass. 3369/82). Si potrà, solo eventualmente, esercitare la facoltà di arresto in flagranza da parte di privati se ricorrono le condizioni di cui all’art.383 del codice di procedura penale.

Necessità della reazione difensiva
Altro requisito di legittimità della reazione difensiva è la sua necessità, che, pur nella riformata autotutela domiciliare, non è stata espunta dalle condizioni prescritte dalla legge. Come confermato da dottrina e giurisprudenza (tra le altre, si vedano Cass. 25653/08 e 16677/07), la reazione adottata, ancorché presuntivamente proporzionata, deve essere l’unica possibile, non sostituibile con altra meno dannosa ma egualmente idonea alla tutela del diritto posto in pericolo. Nella valutazione non si possono stabilire regole fisse e rigide. Occorre ricercare forme alternative di protezione del diritto nel contesto concreto in cui si sono svolti i fatti (mezzi a disposizione, caratteristiche personali, circostanze di tempo e di luogo).

In definitiva, la presunzione assoluta introdotta dalla riforma del 2006 non riguarda la legittimità della difesa in sé, ma il solo requisito della proporzionalità. Né possono essere ammesse interpretazioni di diverso tipo, dal momento che è il solo rapporto di proporzione ad essere richiamato nel capoverso introdotto dal legislatore, mentre non vengono menzionati gli altri requisiti della difesa legittima. Non risulta peraltro così fuori dal mondo il pensare agli esiti nefasti che potrebbe avere una presunzione di legittimità della difesa nel proprio domicilio, qualora si intendesse farne un uso pretestuoso al solo fine di decidere la vita e la morte di chi si trova dentro la propria abitazione.

Salvo, certo, stabilire per legge che ciascuno possa commettere omicidi a sangue freddo: in uno scenario paradossale del genere, lo Stato prevederebbe la pena di morte per la violazione di domicilio e ne delegherebbe l’esecuzione, di fatto, alla vittima. Da tutto questo deriva che la dimostrazione della sussistenza dei requisiti di legge discussi sopra, anche in caso di violazione di domicilio, dovrà essere condotta, in ossequio alla procedura vigente, dinanzi a un giudice, perché è solo nel contesto processuale che si potrà ricostruire, in contraddittorio, lo svolgimento degli eventi, per capire se rientri o meno nell’ambito della difesa consentita dall’ordinamento giuridico.


Abolire l'eccesso colposo: siamo sicuri?

Un breve chiarimento, infine, sull’eccesso colposo, che alcuni politici particolarmente in voga nell'attuale circo mediatico dichiarano di voler abolire. A mente dell’art. 55 del codice penale, quando nella difesa (ma ciò vale anche per altre cause di giustificazione) si eccedono i limiti appena esaminati, e qualora il fatto posto in essere sia previsto dalla legge come delitto punito a titolo di colpa, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi. Ad esempio, in caso di omicidio, se questo è commesso perché teoricamente riconducibile alla difesa domiciliare ma, in pratica, eccede rispetto alle condizioni di legge, verrà applicata la disciplina sanzionatoria prevista per l’omicidio colposo. Il travalicamento dei confini di legittimità della difesa può essere motivato da un errore non scusabile dell’agente nella valutazione del caso concreto o da una violazione delle norme di condotta o di precauzione nella fase esecutiva della condotta di reazione. La casistica è la più varia: si pensi a una condotta non necessaria, poiché il soggetto che ha reagito aveva una valida alternativa per evitare l’ingiustizia.

In mancanza di una condotta colposa, e cioè fuori dall’ambito applicativo dell’eccesso colposo, qualora il superamento dei limiti previsti dalla disciplina della causa di giustificazione sia dettato dal volontario travalicamento dell’agire legittimo-difensivo, l’eccesso sarà oggetto della sua consapevolezza, previsione e volizione: l’agente, dunque, ne risponderà a titolo di dolo (Cass. 1165/92). Sempre con riferimento all’esempio della persona che uccide qualcuno sorpreso nel proprio domicilio, qualora l’azione dovesse essere eccessiva perché, ipoteticamente, non necessaria, si dovrà indagare sull’elemento psicologico dell’agente, al fine di escluderne il dolo ed applicare la più mite disciplina sanzionatoria dell’omicidio colposo. Qualora le indagini non fossero fruttuose in tal senso, dovrà essere il lavoro della difesa a mettere in luce ogni circostanza utile a far derubricare l’omicidio da doloso a colposo, per eccesso di autotutela.

Se, per assurdo, la norma sull’eccesso colposo dovesse essere abrogata, gli esiti sarebbero difficilmente prevedibili. Da un lato, tutta una serie di fatti oggi eccedenti rispetto alla legittima difesa non troverebbero alcuna circostanza utile ad esimere l’autore dalla sua responsabilità, neppure incanalando la fattispecie in un caso di delitto colposo. Dall’altro, si dovrebbe ricorrere ad altri istituti per mandare assolto chi non si attiene ai dettami dell’art. 52 ma da cui nemmeno si poteva esigere un comportamento differente. A questo punto, si potrebbe sperimentare un’applicazione della teoria generale delle cause di esclusione della colpevolezza, peraltro, di pura creazione dottrinale. Il tutto con l’incertezza giuridica che ne deriverebbe e, di certo, senza beneficio alcuno per chi pretende di difendersi nel proprio domicilio scongiurando casi di accanimento giudiziario. Il paradosso è che, anche con una riforma in tal senso, si finirebbe col rendere il diritto più incerto e con l’allargare la discrezionalità del giudice. Quest’ultima, evidentemente, considerata pericolosa “a giorni alterni” dal legislatore della medesima parte politica.