La sentenza n. 70 del 2015 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità del blocco biennale della perequazione automatica delle pensioni superiori a tre volte il minimo Inps, introdotto dal Governo Monti, si presta a tante chiavi di lettura, come ad esempio quelle toccate da Carmelo Palma o anche nel mio articolo su Giustizia Fiscale. 

corte costituzionale

In questa sede vorrei svolgere qualche riflessione supplementare, a partire dal giudizio finale della Corte, secondo cui

"La disposizione concernente l'azzeramento del meccanismo perequativo... si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall'art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell'art. 81 Cost.).
L'interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio".

Per comprendere questo passaggio occorre rammentare che la Corte svolge un sindacato di ragionevolezza delle decisioni assunte dal legislatore. Si tratta di un tipo di intervento contiguo a valutazioni prettamente "politiche", in cui la Corte ripercorre le scelte compiute da Governo e Parlamento, onde verificarne appunto coerenza e razionalità sotto il profilo del corretto e ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco. Nel caso di specie, atteso che il blocco della rivalutazione automatica delle pensioni dava luogo a un potenziale vulnus ai diritti ad un trattamento pensionistico adeguato alle esigenze di vita, la Corte si è chiesta se il legislatore avesse adeguatamente motivato in ordine al perché dovessero prevalere gli interessi generali, connessi allo stato della finanza pubblica, rispetto a quelli dei singoli pensionati lesi dal provvedimento. Ed ha ritenuto che tali giustificazioni non fossero state fornite.

Che cosa prevedevano tuttavia gli atti normativi e le relazioni accompagnatorie? L'art. 24 del D.L. 201/2011, in cui è contenuto il comma 25 sul blocco delle rivalutazioni, esordiva affermando che

"Le disposizioni del presente articolo sono dirette a garantire il rispetto, degli impegni internazionali e con l'Unione europea, dei vincoli di bilancio, la stabilità economico-finanziaria e a rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul prodotto interno lordo, in conformità dei seguenti principi e criteri:...."

Da parte sua il comma 25, sulla deindicizzazione, menzionava la "contingente situazione finanziaria". La relazione tecnica al decreto legge, prevista dall'art. 17 della legge n. 196/2009, conteneva poi i dati di riferimento e le conseguenze numeriche del provvedimento di deindicizzazione, come il monte pensioni a cui si sarebbe applicata la misura, i tassi di indicizzazione per il biennio di blocco, e il calcolo della minore spesa pensionistica per gli anni 2012 e successivi.

In sede di conversione del decreto legge da parte del Parlamento, venne poi accolto il suggerimento della maggioranza di innalzare la soglia dell'intervento, salvaguardando integralmente il potere di acquisto delle pensioni fino a tre volte – anziché solo due volte - superiori al minimo Inps (mentre la minoranza aveva chiesto di innalzarlo a sei volte, in maniera progressiva e a scaglioni). Resta da chiedersi, dunque, quale "illustrazione" e quali "documenti" avrebbero dovuto essere predisposti in sede di emanazione della norma contestata, per soddisfare l'esigenza di una congrua motivazione circa l'equo bilanciamento degli interessi in gioco.

Questo tema si salda infatti all'insussistenza di un generale obbligo di motivare gli atti legislativi e normativi (auctoritas non veritas facit legem), anche se una motivazione può nondimento essere fornita e in certi casi è necessitata dal tipo di provvedimento; in questo caso, essendo l'adozione avvenuta con decreto legge, lo stesso era subordinato alle circostanze eccezionali di straordinarietà e urgenza, che nel preambolo del D.L. 201/2011 erano state appunto riferite al "consolidamento dei conti pubblici, al fine di garantire la stabilità economico-finanziaria del Paese nell'attuale eccezionale situazione di crisi internazionale e nel rispetto del principio di equità, nonché di adottare misure dirette a favorire la crescita, lo sviluppo e la competitività". In ogni caso, la "motivazione" degli atti legislativi emerge dalla relazione illustrativa e da quella di impatto sulla regolamentazione (AIR), che sono state evidentemente ritenute dalla Corte insufficienti a far comprendere in che modo era avvenuto il bilanciamento degli interessi (o forse non sono state nemmeno trovate).

Rimane peraltro da chiedersi quale valore attribuire a questa parte della sentenza, che avrebbe a rigore potuto concludersi anche con la diretta declaratoria di illegittimità costituzionale per violazione dell'art. 38 e del diritto a una pensione adeguata alle esigenze di vita. E' difficile in effetti comprendere se effettivamente i giudici si aspettassero di rinvenire diffuse ed esaustive illustrazioni sul perché della scelta di deindicizzare le pensioni, in luogo di altre possibili misure alternative di taglio della spesa (o di incremento delle entrate): se così fosse, si tratterebbe di un compito assai arduo per ogni legislatore, giacché si tratta appunto di scelte di altissima amministrazione, che non sempre si prestano ad essere incanalate in un iter esplicativo, in una valutazione costi-benefici da cui desumere una razionalità intrinseca della misura adottata, scevra appunto da preferenze di tipo "politico". Oppure se i giudici si aspettassero inconfutabili conferme circa le esigenze di sostenibilità della finanza pubblica, che nel secondo semestre del 2011 erano però davvero conclamate, avendo portato a una crisi di governo e al quasi-commissariamento dell'Italia da parte delle istituzioni europee.

O ancora se l'insufficiente "motivazione" di cui parlano i giudici sia solo una foglia di fico, un modo per giustificare a posteriori una decisione già assunta dalla Corte, nel senso della prevalenza "a prescindere" dei diritti previdenziali dei pensionati su quelli della collettività. Mi chiedo a questo punto un'ultima cosa: se una pensione di due o anche tre volte il trattamento minimo Inps oggetto di temporanea deindicizzazione già la rende "inadeguata alle esigenze di vita" richiamate dall'art. 38 Cost, che cosa si dovrebbe dire per le pensioni minime o quelle inferiori a tre volte il minimo?

Ho dunque la netta sensazione che sul tema delle pensioni ci saranno altri interventi "demolitori" della Corte, e forse la prossima occasione sarà il contributo di solidarietà stabilito dal Governo Letta (con la L. 147 del 2013) sulle pensioni superiori a quattordici volte il trattamento minimo Inps, già oggetto di alcune ordinanze di rimessione alla Consulta, come quella della Corte dei Conti per il Veneto (ordinanza n. 65 del 2015), che ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di costituzionalità per violazione dell'art. 36 Cost. e del principio di uguaglianza tributaria, previo inquadramento del "contributo" tra le misure di prelievo tributario.