Non possiamo continuare a pagare il nostro benessere con le risorse, e quindi con pezzi di benessere, delle generazioni future. Come abbiamo detto a novembre nell’appello lanciato su Strade, e come spieghiamo più nel dettaglio oggi, liberare le giovani e le future generazioni dal peso della nostra irresponsabilità generazionale è una questione di pulizia del dibattito politico, oltre che di moralità civica e repubblicana.

Masini

A novembre, dal sito di Strade, abbiamo lanciato un appello con lo stesso titolo di questa monografia: “Responsabilità generazionale, un Patto Repubblicano per il 2018”. L’idea di fondo era quella di stimolare il dibattito pubblico, in avvio di campagna elettorale, sul tema della finitezza delle risorse economiche, e sulla impossibilità di ricorrere ancora al debito pubblico per procurarsene di nuove: poche settimane dopo, a campagna elettorale avviata, possiamo dire con assoluta certezza che quell’appello non è servito a nulla.

Il Sole 24 Ore, giorni fa, ha fatto una stima di massima del costo delle promesse elettorali in vista delle elezioni del 4 marzo (e siamo ancora a gennaio, nel computo ancora non c’erano per esempio i “venti punti per il benessere degli italiani” proposti dal Movimento 5 Stelle): 270 miliardi, dal reddito di cittadinanza all’abolizione della legge Fornero, dall’uscita dall’euro (che da sola costerebbe probabilmente molto di più) alla flat tax. E tutto questo senza che sia sappia dove verrebbero reperite le risorse necessarie a realizzare tutti questi libri dei sogni dal sapore lisergico.

“È legittimo - provavamo a spiegare - per chi crede nel ruolo dello Stato come calmiere delle differenze sociali e motore degli investimenti economici, chiedere un aumento della pressione fiscale. Allo stesso modo, per chi ha fiducia nella forza propulsiva del mercato, è legittimo chiedere tagli alla spesa pubblica per restituire all’economia una parte delle risorse oggi drenate dallo Stato. Ed è giusto che queste diverse opzioni si confrontino alle elezioni. Non è invece più legittimo né giusto pretendere che il problema delle risorse del presente sia affrontato, ancora una volta, dalle generazioni future, attraverso l’aumento della spesa a deficit, e quindi l’aumento del debito di cui dovranno, in un modo o nell’altro, farsi carico i nostri figli”.

Ci riproviamo ora quindi, da bravi testardi quali siamo, con la monografia di Strade di gennaio/febbraio che qui introduciamo, e non ci limitiamo all’appello, ma piuttosto proviamo a spiegarne, il senso, le ragioni e le intenzioni. Con lo strumento dell’analisi economica e demografica prima di tutto, tentando poi di suggerire alcune strade da percorrere, e al tempo stesso provando a convocare al dibattito alcune personalità che da diverse sponde politiche e culturali ci sembrano avere lo spessore e l’onestà intellettuale per interrogarsi su questioni di questa portata, anche a ridosso di una scadenza elettorale. Siamo molto grati a chi ha risposto al nostro invito.

Il debito pubblico rappresenta, lo spiega bene Carmelo Palma, una delle tante “autobiografie della nazione” all’interno delle quali siamo imprigionati: è la sostanza di un patto tra eletti ed elettori volto a garantire benefici qui e ora, e a rimandarne il pagamento a un indeterminato futuro, sempre spostato in avanti, e sempre rinegoziato, finche le circostanze lo permettono. E quando le circostanze non lo permettono più il commissario di turno - che si chiami Amato o Ciampi, Monti o Fornero - viene prima invocato e poi stramaledetto, in attesa che gli avventori ricomincino ad occupare diligentemente i posti a tavola, per un nuovo giro di portate. Una dinamica che imprigiona anche le potenzialità del riformismo di governo, come racconta Luigi Marattin, oggi stretto nella morsa tra le cose da fare e la fragilità del capitale politico necessario per farle. Una dinamica, ma sarebbe il caso di parlare di un vero e proprio assedio, che alla politica riformista ha tolto voce e credibilità.

Oggi non è solo il volume del debito a decretarne l’insostenibilità, ma anche la dinamica demografica, descritta da Giampiero Dalla Zuanna nel suo articolo: gli anziani raddoppieranno nel giro di una generazione, mentre i giovani diminuiscono e ritardano sempre di più il loro accesso al lavoro. Sempre meno attivi per sostenere il benessere di una platea di pensionati sempre più ampia e affollata, e benedetta da un racconto pubblico che li assimila ai poveri - fa bene Elsa Fornero a sottolinearlo nel suo contributo - proprio mentre la povertà ha aggredito prima di tutto i giovani, e il reddito medio delle fasce di età più alte è andato consolidandosi uscendo sostanzialmente indenne dalla crisi.

Ma come è fatto, quindi, paese in cui si è consumato questo enorme trasferimento di risorse dai giovani agli anziani? È l’articolo di Thomas Manfredi, quasi un vero e proprio paper, a tracciarne i contorni, dal debito alle pensioni, individuando le origini del furto generazionale nella dinamica distorta di una spesa pubblica cronicamente male allocata: i giovani pagano tasse sul lavoro altissime, in gran parte destinate a ripagare gli interessi sul debito e a sostenere un sistema previdenziale dai cui benefici saranno esclusi, e pagano al tempo stesso la scarsità di investimenti pubblici e privati, per i quali invece le risorse scarseggiano, scarsità che ha prodotto un ambiente di vita e di lavoro arido e improduttivo.

È la produttività del lavoro l’indicatore migliore di questo costo “di sistema” che pagano le giovani generazioni. La storia del declino italiano è la storia della picchiata della sua produttività del lavoro a partire dagli anni ‘90, quindi della sostanziale arretratezza e cattiva allocazione di tutti i fattori di produttività. Si può ripartire? Certo che si può, a condizione che si comprenda la natura del problema e si accetti il rischio - tutto politico - di perdere consenso distogliendo risorse ai tanti beneficiari di rendite grandi e piccole. Sia che si voglia dirottare parte della spesa corrente in spesa per investimenti, pubblici orientati alla produttività - dalla ricerca alle infrastrutture fisiche e immateriali, dalla scuola e dall’università (a cominciare dalla qualità della loro interazione con il mercato del lavoro) all’efficienza delle istituzioni pubbliche (burocrazia, giustizia civile…) - sia che si voglia restituire all’impresa e al lavoro parte di quelle stesse risorse, attraverso la riduzione della pressione fiscale, perché siano le imprese a investire efficacemente in innovazione.

Ci sono risorse ‘qui e ora’ da liberare, attraverso l’apertura alla concorrenza e al mercato dei settori economici protetti. Come ricorda Carlo Stagnaro, le liberalizzazioni sono “l’unica leva di politica economica attraverso cui si può sperare di alzare il prodotto potenziale – e dunque stimolare crescita, innovazione e occupazione – già nel breve termine”. E poi le risorse che possono essere generate attraverso gli investimenti in capitale umano e conoscenza, in capitale fisso, in progresso tecnologico e organizzativo, secondo le linee guida abbozzate dal Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda e dal Segretario della Fim Cisl Marco Bentivogli nel loro “piano industriale per l’Italia delle competenze” pubblicato recentemente sul Sole 24 Ore.

Perché, come dice Piero Angela nell’emozionante - per chi scrive - intervista che apre questa monografia, sebbene la politica sia abituata a investire nella ricerca del consenso, nella macchina della povertà, essa “ha anche un ruolo molto più importante e nobile, ed è quello di fare in modo che questo pacchetto così prezioso che è rappresentato da scienza, tecnologia, innovazione, energia ed educazione sia preservato e sviluppato, perché è la macchina della ricchezza”.

Quello che proviamo quindi ad abbozzare in questa monografia è il racconto di un cambiamento di prospettiva epocale che la realtà impone a chi della realtà si fa interprete, a cominciare da chi ha costruito in un secolo di storia una proposta politica fondata sulla spesa pubblica come strumento irrinunciabile di “equalizzazione sociale”. D’altronde quello generazionale è un problema di uguaglianza, ed è certo che lo sarà sempre di più, e in maniera sempre più drammatica, proprio nella misura in cui la disuguaglianza tende statisticamente ad accumularsi nel corso della vita. Per questo il contributo di Gianni Cuperlo è particolarmente gradito, proprio perché - anche da una prospettiva tendenzialmente lontana dalla nostra, anzi, soprattutto perché lo fa da quella prospettiva - accetta di mettere in discussione paradigmi che sono la carne e la cultura profonda della sinistra.

È questo il senso del “Patto Repubblicano” che abbiamo proposto con il nostro appello: il futuro di questo paese può essere costruito solo da chi, a prescindere dalle proprie inclinazioni politiche di fondo, coglie la necessità etica e storica di liberare le giovani generazioni dalla gabbia in cui le abbiamo rinchiuse, anche a costo di vedere erodere il proprio consenso politico, la popolarità del proprio racconto pubblico, le prospettive della propria proposta elettorale. Un “Patto Repubblicano” di minoranza quindi, molto di minoranza, ma che oggi secondo noi rappresenta la chiave migliore per interpretare la campagna elettorale in corso e le proposte dei suoi protagonisti