Almeno 10 miliardi di euro, ha stimato nel 2013 la Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali. Una cifra che, al momento in cui è stata calcolata, era pari al 10% circa della spesa totale per la sanità e allo 0,75% del Prodotto Interno Lordo. Circa 165 euro l’anno attinti dalle tasche di ogni cittadino. Ma l’impatto della medicina difensiva non va considerato solo in termini economici.

villa ospedale salaattesa

Colpito in combattimento, Alessandro Magno rischiava di morire ancora più precocemente di quel che il destino aveva comunque già stabilito per lui. I medici, tutt’intorno al ferito, erano paralizzati dal timore di intervenire. Per estrarre la freccia uncinata, infatti, non avevano altra scelta che allargare la ferita, col rischio di provocare un’emorragia fatale, di cui avrebbero potuto essere considerati responsabili. Solo dopo essere stato apostrofato dal re stesso, racconta Quinto Curzio Rufo, Critobulo osò agire, salvandogli la vita.

Medici e pazienti di oggi non sempre hanno lo stesso coraggio, o non sono allo stesso modo messi nelle condizioni di decidere in totale libertà, prendendo di comune accordo scelte dettate solo da scienza e coscienza. Sul loro rapporto aleggia anche lo spettro di studi legali specializzati in controversie mediche, e il timore, per il medico, di finire in tribunale. Capita così che, soprattutto in ambito chirurgico, si evitino a priori operazioni o procedure potenzialmente pericolose per non rischiare ritorsioni legali nel caso le cose non andassero per il verso giusto. Meglio lasciar fare alla natura, che, come si sa, non si fa gli stessi scrupoli, ma non può essere citata a giudizio.

È la cosiddetta “medicina difensiva”, quella per cui le scelte dei clinici a volte dipendono più dalla paura di una eventuale futura denuncia che dalle reali esigenze del paziente. Nel caso appena descritto il paziente è privato di un trattamento potenzialmente efficace, ma la storia non si fa con i se. Quantificare i costi per la sanità e i danni per i malati di operazioni non fatte, a fronte di quelli provocati dall’evolversi della malattia, non è facile. Così come non è facile calcolare a posteriori quante vite si sarebbero potute salvare, o conseguenze gravi evitare, con scelte più aggressive, di per sé pericolose, dei cui possibili esiti incerti occorrerebbe allo stesso modo tener conto.

Per questo, quando si parla di “medicina difensiva”, ci si concentra molto di più sull’altra faccia della medaglia, cioè sull’enorme numero di accertamenti diagnostici e trattamenti inutili, prescritti per proteggere il sonno dei medici più che la salute dei pazienti. Purtroppo non si tratta di casi eccezionali.

In un’indagine condotta pochi anni fa dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AgeNaS) su 1.500 medici ospedalieri italiani, più della metà (il 58%) ammetteva di farsi condizionare da questi pensieri nella propria attività. Il fenomeno però è probabilmente ancora più diffuso. In altri studi, in Italia e nel mondo, la percentuale di medici che dichiarano comportamenti ispirati a un atteggiamento difensivo è, infatti, molto più alta, superando in certe fasce di età anche il 90% degli intervistati. Secondo dati riportati dal Ministero della Salute, quasi sette su dieci avrebbero proposto o richiesto il ricovero in ospedale per pazienti che avrebbero potuto essere seguiti in ambulatorio, circa sei su dieci riconoscono di aver prescritto indagini o visite specialistiche superflue rispetto a quelle necessarie per arrivare a una diagnosi, più della metà avrebbe prescritto farmaci e quasi un quarto altri tipi di trattamenti ritenuti non necessari. Con il dettaglio sconfortante per cui, per la maggioranza di chi la pratica, la medicina difensiva non serve nemmeno a ridurre gli errori, ma è solo un fattore che limita la propria attività professionale.

Tutto questo costa. Almeno 10 miliardi di euro, ha stimato nel 2013 la Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali. Una cifra che, al momento in cui è stata calcolata, era pari al 10 per cento circa della spesa totale per la sanità e allo 0,75% del Prodotto Interno Lordo. Circa 165 euro l’anno attinti dalle tasche di ogni cittadino.

Ma l’impatto del fenomeno non va considerato solo in termini economici. Agire su questo fronte non è solo un modo per far passare altri tagli alla sanità (per quanto ridurre gli sprechi consenta di liberare risorse utili in altri settori). Sottoporre migliaia di cittadini ad accertamenti inutili significa anche esporli, in alcuni casi, al rischio di potenziali effetti collaterali e, nel caso di esami radiologici, a una dose inutile di radiazioni. Comporta un allungamento delle liste di attesa che non determina solo ansia e disagio, ma rallenta l’esecuzione di esami indispensabili in chi non si può permettere di ricorrere alla sanità privata, con ulteriori effetti indesiderati a catena dovuti a diagnosi tardive e al peggioramento delle disparità socioeconomiche di salute. Inoltre, come si è detto, accanto al “fare troppo”, c’è anche il “non fare abbastanza”: più di un quarto dei medici ha escluso a priori dai trattamenti pazienti a rischio, al di là dei normali criteri di prudenza, e il 14% ammette di aver evitato procedure diagnostiche o terapeutiche rischiose, pur sapendo che il paziente avrebbe potuto trarne beneficio.

In altri Paesi, da almeno una decina di anni si è cercato di rimediare con provvedimenti legislativi di vario tipo. In Italia, al decreto Balduzzi del 2012, focalizzato sull’obiettivo di contenere la spesa pubblica attribuita alla medicina difensiva, ha fatto seguito la legge n. 24 dell’8 marzo 2017, meglio nota come legge Gelli-Bianco. Il provvedimento è stato invocato e caldeggiato anche attraverso una raccolta di firme, ma non ha mancato di suscitare critiche. Che cosa è cambiato? Prima di tutto la nuova norma distingue la responsabilità della struttura sanitaria da quella del professionista. La prima resta, come si dice in gergo, di tipo “contrattuale”: prevede cioè che il fatto stesso di rivolgersi all’ospedale da parte del paziente abbia stabilito tra i due un rapporto che obbliga l’ente nei confronti del malato. Quest’ultimo deve quindi dimostrare di aver subito un danno, e ha dieci anni di tempo per farlo, ma è l’azienda sanitaria a dover dimostrare di non avere responsabilità riguardo all’accaduto.

Nelle cause rivolte direttamente nei confronti dell’operatore sanitario (medico, infermiere, ostetrica che sia), invece, con la nuova legge l’onere della prova passa al paziente, che deve dimostrare la colpa del professionista. Questo perché la responsabilità è in questo caso di tipo “extracontrattuale”, con la conseguenza che anche i tempi della prescrizione sono più stretti: il malato ha cinque anni di tempo, passati i quali gli eventuali fatti passano in prescrizione.

Gli ospedali, inoltre, sono chiamati a provvedere con assicurazioni o altri fondi al risarcimento dei pazienti, ma l’altra grossa novità, forse la più importante, della legge Gelli-Bianco, è stata quella di mettere in soffitta, anche davanti alla legge, come già da anni nel mondo della scienza, l’idea della medicina come arte, che ogni medico è libero di praticare a suo piacimento. La norma stabilisce infatti che, per stabilire la correttezza della sua condotta, facciano testo linee guida ufficiali o, nel caso in cui queste non siano disponibili, «buone pratiche sulla sicurezza in sanità» definite da un Osservatorio creato ad hoc.

«Finora, in ogni causa di risarcimento per il danno subito da un paziente, il giudice, che non può essere competente nello specifico, si trovava sul tavolo due perizie, con opinioni in genere opposte, su cui talvolta non aveva strumenti per prendere posizione», commenta Pietro Bagnoli, chirurgo autore del libro «Reato di cura» (Sperling & Kupfer, 2016), in cui affronta il tema della medicina difensiva anche attraverso la vicenda giudiziaria in cui è stato coinvolto in prima persona. «Oggi questa legge ha ribadito che anche in tribunale vale lo stesso principio affermato da molti anni in medicina. La pratica clinica non deve basarsi sulle opinioni del singolo professionista, ma sulle prove raccolte da studi controllati effettuati su grandi numeri di pazienti con criteri metodologici rigorosi, che producano linee guida valide per tutti, possibilmente validate a livello internazionale, a garanzia che i pazienti, ovunque si trovino, ricevano le migliori cure disponibili sulla base della conoscenza disponibile in quel preciso momento.»

In pratica, però, il riferimento indicato dalla legge lascia molte aree di incertezza e apre questioni importanti. Prima di tutto la definizione delle linee guida, in un primo momento affidate alle società scientifiche, a cui nella stesura finale è stato affiancato l’Istituto Superiore di Sanità. L’esperienza insegna che società scientifiche diverse possono prendere posizioni anche molto discordanti su temi importanti, e la stretta dipendenza di queste realtà dai finanziamenti dell’industria pone qualche dubbio sulla garanzia di indipendenza che possono assicurare.

«Bisognerebbe fare riferimento ai documenti prodotti da iniziative come la Cochrane Collaboration, che risponde a diverse domande cliniche solo dopo aver raccolto e analizzato in maniera rigorosa la letteratura scientifica prodotta in tutto il mondo sull’argomento», aggiunge il chirurgo milanese, che insiste sulla necessità di una definizione a livello internazionale di queste indicazioni: «Solo così, fatti i dovuti aggiustamenti per adattare le linee guida alle realtà locali, si può arrivare a stabilire quello che si può considerare lo stato dell’arte nelle diverse discipline, senza condizionamenti e conflitti di interesse particolari».

Al momento, di conseguenza alla legge, il Sistema nazionale linee guida del Ministero è in fase di aggiornamento. Dalle pagine di «Forward. Recenti progressi in medicina», Primiano Iannone, direttore del Centro eccellenza clinica, qualità e sicurezza delle cure dell’Istituto Superiore di Sanità, sottolinea l’importanza del ruolo di garante affidato all’istituzione: «All’Istituto Superiore di Sanità saranno affidate la valutazione della qualità e rilevanza delle linee guida proposte dalle società scientifiche, ma anche una definizione delle loro priorità, con una stewardship delle società scientifiche stesse. Ci si dovrà riferire ai massimi standard metodologici, non solo per la valutazione delle evidenze e formulazione delle raccomandazioni, ma in merito a composizione dei panel, gestione dei conflitti di interesse, “taglio” da dare alle linee guida. Bisognerà inoltre considerare sempre l’opportunità di adattare linee guida esistenti invece che crearne di nuove. Tutti elementi cruciali per determinare il destino del Sistema nazionale linee guida e, in buona misura, anche la performance del Servizio sanitario nazionale e gli esiti di salute conseguenti».

Un compito impegnativo, che sarà da svolgere scrupolosamente, a tutela di medici, pazienti e della sostenibilità dell’intero sistema.