Il protezionismo non cade dal cielo, ma è un’opzione politica vera e propria, della quale conosciamo perfettamente gli effetti devastanti sul benessere e sulla prosperità delle nazioni. Tuttavia, è un’opzione rassicurante, una pericolosa illusione che sta tornando di moda e che avrà successo, se non ritroveremo il coraggio di difendere le ragioni della libertà e della crescita.

Masini muro

Il 2016 è stato un anno nero per il commercio internazionale, che per la prima volta dopo decenni è cresciuto meno del PIL globale dello stesso anno. Messo così, è solo uno dei tanti dati che ci passano quotidianamente davanti agli occhi e ai quali non diamo troppo peso. In realtà, è il segno che qualcosa si sta inceppando nel processo di globalizzazione, ovvero nel più potente volano di prosperità e benessere che l’umanità abbia mai conosciuto nella sua storia.

Dietro a questo fenomeno ci sono situazioni congiunturali che hanno a che fare prima di tutto con la frenata dei paesi asiatici, ma c’è anche un nuovo fenomeno, tutt’altro che ineluttabile: la rimonta del protezionismo, soprattutto nelle regioni più ricche del pianeta, che si manifesta attraverso politiche di chiusura alla circolazione delle merci, dei beni, dei servizi, dei capitali e delle persone.

Dalla vittoria di Trump alla Brexit, fino ai rigurgiti nazionalisti e sovranisti in giro per l’Europa, i segnali che preannunciano un ritorno in grande stile delle politiche protezionistiche sono tanti, e si collegano a quella “crisi della democrazia contemporanea” di cui abbiamo provato a tracciare i contorni in una recente monografia di Strade, della quale quella che presentiamo oggi è parente stretta. Il protezionismo - e non è certo la prima volta nella storia che questo accade - è il prodotto politico e la declinazione programmatica del populismo, della rabbia e della frustrazione sociale.

Se la crisi economica del 2008 era stata innescata da processi forse non imprevedibili, ma senz’altro difficilmente comprensibili a chi non conosce a fondo gli strumenti complessi dei mercati finanziari, oggi l’opzione protezionista, che rischia di essere l’innesco di una nuova grande crisi economica attraverso la contrazione degli scambi, è un’opzione politica vera e propria, riconoscibile, le cui dinamiche e i cui effetti sono tutt’altro che ignoti, e alla quale è possibile rispondere con dei Sì o dei No che sono tutti politici. Sappiamo perfettamente a cosa stiamo andando incontro, anche mentre spingiamo l’acceleratore nella direzione sbagliata.

Ma cosa c’è all’origine della schizofrenia che porta consapevolmente a privilegiare scelte controproducenti? Questioni di consenso, innanzitutto, che si confrontano necessariamente con l’ansia del benessere della classe media occidentale, della quale ha parlato Federica Colonna nella sua analisi sulle radici psicologiche all’origine del successo “popolare” del messaggio protezionistico.

L’apertura agli scambi, la concorrenza e la competizione, l’innovazione tecnologica sono soluzioni controintuitive rispetto al bisogno di protezione che si avverte quando le cose non vanno bene. Il protezionismo non è efficace, ma è rassicurante. Ed essendo rassicurante premia in termini di consenso: è chiaro oggi che chi volesse farsi portatore dell’opzione anti-protezionista dovrebbe rassegnarsi a navigare controcorrente. Un’arma di distrazione di massa, come rileva Benedetto della Vedova.

Eppure le ragioni della società aperta, i vantaggi della libera circolazione delle merci, dei capitali (e anche delle persone, come torna a dire su questo numero Marco Parigi) sono gli stessi di sempre. Neanche la retorica - un bel po’ abusata, come dimostrano i numeri esposti da Thomas Manfredi - dei “vinti della globalizzazione” può ragionevolmente essere usata per sostenere l’efficacia di muri, dazi e barriere commerciali come volano di ricchezza e benessere: il protezionismo non funziona e - lo spiega bene Alessandro De Nicola - non è mai servito a nulla.

Il protezionismo servirebbe ancora meno oggi, proprio perché le catene globali del valore fanno sì che non esistano più, di fatto, filiere produttive nazionali, e nemmeno prodotti nazionali: le imprese acquistano materie prime e componenti da fornitori globali, e mettono sul mercato prodotti che sono a tutti gli effetti prodotti globali: “negli Stati Uniti - ricorda Carlo Stagnaro nel suo approfondimento - se guardiamo all’1 per cento dei maggiori esportatori (circa 2.000 imprese), scopriamo che più di un terzo appartiene anche al club dei maggiori importatori. Parimenti, più della metà di questi ultimi (attorno alle 1.300 imprese) fanno anche parte del gruppo dei maggiori esportatori”. Quindi, chi trarrebbe vantaggio dal protezionismo? Nessuno, e noi ancora meno degli altri, dal momento che la quota di committenza internazionale per le imprese italiane è molto elevata.

Piuttosto - e questo è un punto centrale, ben illustrato da Emanuela Banfi - la posizione che si tende a occupare nelle catene del valore non è neutra: “il posizionamento delle imprese italiane all'interno delle filiere globali migliorerà quanto più esse riusciranno ad avanzare all'interno delle catene del valore, occupando segmenti finali, che tendenzialmente hanno più alto valore aggiunto”. Innovazione - altra parola svanita dal dibattito pubblico italiano - quindi, oltre che apertura al commercio.

Cosa rischiamo, dunque, col successo del protezionismo? Difficile dirlo con esattezza. Una nuova mappa delle relazioni bilaterali, figlia dell’arrivo di Trump - ben descritta da Giacomo Mannheimer - e una maggiore instabilità geopolitica. E maggiore povertà, e minori opportunità, per tutti.

Alla particolare debolezza italiana in un mondo chiuso e geopoliticamente instabile si aggiunge una fragilità europea tutta particolare, che origina dalla peculiarità del mercato comune interno - e dall’assenza di una solida infrastruttura politica che lo sorregga. Di più, le “sovranità competitive” degli Stati membri dell’Unione sono oggi un pericoloso elemento di disgregazione che mette a rischio, insieme alla libertà di circolazione all’interno delle frontiere europee, proprio il mercato comune, che - come spiega Alessandro Del Ponte - invece andrebbe rafforzato, difeso e consolidato.

Oggi l’Europa si trova nella paradossale situazione di essere l’area di libero scambio più ricca e prospera del pianeta, e di non essere in grado di concludere in tempi ragionevoli un accordo commerciale a proprio vantaggio, per le pressioni interne degli Stati membri, o addirittura di regioni interne, come ha dimostrato il recente caso del CETA, l’accordo con il Canada, che rischiava di saltare per una impuntatura della regione belga della Vallonia. O come dimostra l’imbarazzo dei singoli governi a difendere il TTIP (ma non solo il TTIP, come spiega Marco Marazzi) di fronte a opinioni pubbliche particolarmente permeabili al populismo e all’isteria protezionista.

Alla fine si torna al punto di partenza: se il protezionismo non è un destino ineluttabile ma un’opzione politica - benché sbagliata e suicida - da scegliere o da respingere, a emergere oggi è l’assenza dell’opzione politica alternativa - fa bene Piercamillo Falasca a ricordarlo nel suo editoriale - che difenda le ragioni dell’apertura rispetto alla chiusura, della libertà rispetto ai nazionalismi, della crescita e dello sviluppo rispetto alle sirene della decrescita e dell’autarchia. Manca il coraggio di navigare controcorrente, anche se la corrente conduce inesorabilmente sugli scogli.