Il sistema delle garanzie e gli istituti di partecipazione escono rafforzati dalla riforma costituzionale. A differenza di oggi, ad esempio, non sarebbe più possibile eleggere un Capo dello Stato con i soli voti della maggioranza di governo. Aumentano le firme da raccogliere, ma il quorum per la validità dei referendum abrogativi è più basso (la metà più uno dei votanti alle ultime elezioni) e sulle proposte di legge di iniziativa popolare sono garantiti l’esame e la deliberazione da parte del Parlamento.

Tonti Partenone

La propaganda anti-riforma fa spesso leva sul "rischio per la democrazia" che essa comporterebbe. Si tratta, tuttavia, di un rischio del tutto infondato. Non solo perché tale tipo di censura si concentra, più che sulla riforma costituzionale, sulla legge elettorale (peraltro non sottoposta a referendum, essendo fallita la raccolta firme, e modificabile in Parlamento in qualsiasi momento); ma anche perché, pur considerando il combinato disposto di Italicum e riforma costituzionale, rimarrebbe intatto il sistema di checks and balances previsto nel nostro ordinamento.

Ad esempio è del tutto strumentale l'argomentazione secondo cui, dopo la riforma, il Presidente della Repubblica verrà eletto dalla sola maggioranza. Secondo una simulazione fatta da La Stampa il 12 ottobre scorso, i nuovi senatori del PD sarebbero la maggioranza (55 su 100; 60 se aggiungiamo i 5 autonomisti, alleati del PD sul territorio). Alla Camera, se il Pd vincesse le prossime elezioni, avrebbe 340 seggi; dunque nel Parlamento in seduta comune 400 seggi su 730 circa (escludendo i 3 senatori a vita di nomina presidenziale e i senatori a vita di diritto in quanto ex Presidenti della Repubblica). La Costituzione riformata prevede che, analogamente a quanto avviene oggi, fino al terzo scrutinio il capo dello Stato debba essere eletto dai 2/3 del Parlamento in seduta comune, ovvero 487 voti; cifra molto lontana dai 400 di cui, nella simulazione, disporrebbe il partito di maggioranza. Dal quarto scrutinio sarebbe necessaria la maggioranza di 3/5 dell'assemblea, quindi 438 voti. Dal settimo, il quorum si abbassa ai 3/5 dei votanti anziché dei componenti; ancora, per eleggere il Presidente della Repubblica il partito di maggioranza dovrebbe trovare un accordo con l'opposizione, quantomeno affinché si astenga.

Al contrario, possiamo affermare che la riforma porta più e non meno democrazia, introducendo significative innovazioni in materia di "democrazia diretta".

Partiamo dall’iniziativa legislativa popolare. È innalzato da 50 a 150 mila il numero di firme necessarie per la presentazione di un progetto di legge di iniziativa popolare, ma al contempo si introduce il principio che ne debbano essere garantiti l’esame e la deliberazione finale. Una modifica volta a rivitalizzare questo istituto, che finora ha avuto una ridotta incidenza proprio perché raramente l'iter di tali proposte è arrivato a conclusione.

In secondo luogo, l'ultimo comma dell'art. 71, con una disposizione programmatica dagli effetti potenziali molto rilevanti sulla forma di governo, prevede che, "al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche", spetti a una legge costituzionale il compito di stabilire le condizioni e gli effetti di "referendum popolari propositivi e di indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali". È una disposizione che guarda al futuro, in quanto le norme di attuazione potranno ben prevedere il ricorso all'identità digitale e a piattaforme online sia per la raccolta delle firme che per il voto, con l'obiettivo di colmare la distanza dei cittadini (soprattutto quelli più giovani) dalle Istituzioni.

Infine, la riforma interviene sul referendum abrogativo prevedendo che, qualora la richiesta sia avanzata da 800.000 (anziché 500.000) elettori, esso sia valido se ha partecipato al voto "la maggioranza dei votanti delle ultime elezioni" invece che degli aventi diritto. In questo modo si allinea il requisito della validità al dato variabile della partecipazione elettorale, evitando che il crescente astensionismo penalizzi il solo istituto referendario e favorisca di fatto i sostenitori del "no". Infatti mentre per vent’anni, dal 1974 al 1995, si è sempre registrata la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto (ad eccezione della tornata del 1990), dal 1997 ad oggi non si è mai raggiunto il quorum, con l'eccezione della consultazione del 2011 su servizi pubblici locali, acqua e nucleare. Per comprendere la differenza, si consideri che alle ultime elezioni per la Camera hanno votato circa 35 milioni di persone; al referendum sulle trivellazioni quasi 16, quindi poco meno della metà dei votanti delle politiche, ma solo il 31% degli aventi diritto.

Allora votiamo sì anche per dare più voce ai cittadini, ma con strumenti garantiti in Costituzione, e non con fantomatiche votazioni su blog proprietari. Un ultimo dato che può far riflettere: alle consultazioni online sul sito di Beppe Grillo partecipano mediamente circa 25.000 iscritti certificati, ovvero lo 0,05 degli aventi diritto al voto.