Un’apologia dell’attualità della fedeltà coniugale (e nel rapporto all’interno di ogni famiglia legittima) come principio giuridico laico, non mutuato da questo o quel credo religioso, ma sotteso anche al rapporto fra individuo e Stato.

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“Un dibattito tra ubriachi”. Così Massimo Cacciari ha - a mio avviso correttamente - rubricato la discussione politica che ha condotto il Senato ad escludere il reciproco obbligo di fedeltà dal testo sulle unioni civili approvato in Aula, inducendo successivamente alcuni Senatori del PD a sottoscrivere il cd. “emendamento Cantini”, con il quale si propone di eliminare la fedeltà dal catalogo dei doveri dei coniugi all’interno del matrimonio civile.

La pretesa politica di escludere il dovere di fedeltà dal perimetro giuridico delle unioni omosessuali, e l’idea che tale obbligo sia in fondo da cancellare anche per il matrimonio civile, sono tessere di un mosaico complesso, il quale rimanda una luce sinistra sulla capacità del Parlamento di dialogare con la storia, con l’etica, con la dimensione culturale delle norme giuridiche. Perché l’esclusione del dovere di fedeltà da qualunque negozio diretto a creare una famiglia legittima non è espressione di un non meglio inteso “adeguamento al mutare dei tempi”, ma la negazione di un principio bimillenario su cui si fonda – perlomeno in Occidente – il patto che unisce stabilmente due persone.

“Fedeltà” è una parola antica, strettamente imparentata con “fiducia”. Si può dire che tra questi due concetti esista una vera e propria relazione biunivoca: è la fiducia che una persona ripone in un’altra che conduce quest’ultima a rispondere – in modo costante – alle attese e ai desideri dell’altro. Per cui si può dire che l’amore implica l’affidarsi all’altro, che tale affidamento conduce gli individui a legarsi attraverso una serie di impegni, progetti, obiettivi comuni, e che tale legame costituisce un vero e proprio patto dotato di molte dimensioni (di carattere etico, esistenziale, addirittura teologico), il quale richiede l’impegno ad un’osservanza costante e salda nel tempo. In altre parole non c’è amore senza affidamento, e non c’è affidamento senza fedeltà.

Nella tradizione giudaico-cristiana, la dimensione privatistica del patto di fedeltà rimanda, da un punto di vista teologico, all’Alleanza tra uomo e Dio: gli sposi si legano attraverso un vincolo di fiducia che è simbolo (nel senso che rimanda ad una dimensione altra, mettendo insieme - syn-ballein – umano e divino) della reciproca relazionalità di carattere fiduciario che unisce umano e divino. Così per il profeta Malachia il Signore diventa testimone del legame tra l’uomo e la donna della sua giovinezza (dunque la donna cui l’uomo si accompagna nella piena purezza dei suoi affetti e delle sue passioni), e non accetta più olocausti e sacrifici, negando così la sua benevolenza, quando il patto che scaturisce da tale legame venga violato.

Più in generale, da un punto di vista politico, il rapporto fedeltà-fiducia di carattere privatistico esistente nei rapporti di coniugio rimanda all’Alleanza di carattere pattizio tra governante e governato. E ciò – si badi – non solo nell’ottica feudale della relazione di vassallaggio, ma – in prospettiva moderna – nella necessità hobbesiana di creare un “Leviatano” capace di affrancare l’individuo dallo stato di natura. Per cui, come la fedeltà coniugale (intesa come creazione comunionale di un progetto di vita insieme) è precondizione dell’unione sponsale, la fedeltà del governato nei confronti del governante diventa una precondizione necessaria per costruire una condivisa ed efficace azione di governo. Nello stesso tempo il governante non può violare il patto di fiducia, legittimando laddove tale patto sia leso in modo da violare i diritti fondamentali dell’individuo – qui può essere d’aiuto la lettura di Locke e Thoreau – il diritto di resistenza.

La concezione moderna sfocia nella visione dell’art. 54 della Costituzione, in cui tra cittadino e Repubblica viene a costituirsi un’alleanza stabile segnata indelebilmente dalla fedeltà, per cui privato (famiglia fondata sul matrimonio) e pubblico vengono ad armonizzarsi nella visione generale di una società capace di garantire il pieno sviluppo della personalità umana.

Naturalmente questa “sinfonia della fedeltà” tra pubblico e privato non guarda ad una visione hegeliana della famiglia: la secolarizzazione – prima della società e poi del diritto – e la laicità dello Stato impediscono di immaginare i rapporti famigliari se non all’interno di una pluralità di modelli capaci di valorizzare l’eguaglianza e l’autonomia privata. Tuttavia, tale privatizzazione e moltiplicazione dei modelli famigliari continua innegabilmente a ruotare intorno al valore della fedeltà: e non si vede perché tale valore non debba assurgere, esattamente come avviene in ambito pubblicistico e penalistico (si pensi al reato di infedeltà patrimoniale), al rango di principio giuridico di riferimento capace di produrre conseguenze di carattere ordinamentale.

Tali conseguenze non possono naturalmente essere diverse dall’addebito in caso di separazione, stante l’impossibilità di immaginare la reviviscenza del delitto di adulterio: tuttavia – non solo da un punto di vista “educativo” o “simbolico” – l’idea di un obbligo giuridico di fedeltà che continua a conformare la struttura legittima della famiglia (sia questa etero o omosessuale) costituisce il riflesso privatistico della valorizzazione della reciproca e costante fiducia tra consociati come elemento basilare di uno sviluppo virtuoso della società.

Certo, bisogna evitare di immaginare la fedeltà come un obbligo legato esclusivamente alla dimensione erotica del rapporto. La Corte di Cassazione ha sottolineato come la fedeltà implichi una progettualità comune, di carattere spirituale ed etico, che va oltre la mera esclusività del talamo: per cui – paradossalmente – possiamo addirittura immaginare la sussistenza di una fedeltà di carattere strutturale in una coppia dedita allo scambismo, ovvero fedeltà plurime in rapporti poliamorosi, a condizione che la pluralità non escluda la creazione di una comunione spirituale e materiale stabile e costante tra le parti del rapporto.

Peraltro, al di là dei paradossi, la strutturazione della fedeltà come obbligo di dare e ricevere in modo stabile la fiducia dell’altro all’interno di una progettualità comune rende particolarmente difficile da spiegare l’esclusione dell’obbligo di fedeltà dalle unioni civili. Delle due l’una: o si ritiene tale obbligo il retaggio di una visione obsoleta della relazionalità amorosa stabile, così dimenticando tutta la ricchezza storica e culturale che abbiamo evocato e rinunciando a riproporre la sinfonia della fedeltà tra pubblico e privato, oppure (ed è anche peggio) si ritiene di dover appoggiare un paradigma antropologico fondato sullo stereotipo (e sul pregiudizio) dell’omosessualità come condizione ontologicamente incompatibile con la fedeltà. In entrambi i casi siamo ben lontani dal dibattito che la serietà del tema meriterebbe.