Col Fiscal Compact, la Germania sta insegnando all’Europa come si costruisce una federazione, e la strada passa da una politica fiscale comune. Se da una parte gli Stati membri dell’UE si sono impegnati a tagliare il debito, dall’altra, con gli eurobond, l’UE si dovrà impegnare a restituire risorse agli Stati membri in termini di servizi, reti infrastrutturali continentali, integrazione delle reti energetiche, sistema comune di difesa.

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Partiamo dalla fine. Da un ipotetico Tesoro europeo che emette titoli di debito europei per finanziare parte della spesa pubblica europea. Fatta di investimenti infrastrutturali europei, pensioni europee, sanità europea, servizi sociali europei. Coperti a loro volta da una politica fiscale europea. Decisa da un Governo europeo, espressione di un parlamento europeo, votato da elettori europei.

Non male, vero? Roba da chiedersi dove si debba comprare il biglietto, per arrivarci. Se non fosse che - colpo di scena - ce l'abbiamo già in mano, quel biglietto, e siamo già in marcia. Solo che non lo sappiamo, o non ce l'hanno detto. Comunque sia: l'abbiamo comprato tra l'1 e il 2 marzo del 2012, a Bruxelles, quando ci siamo impegnati, insieme a tutti gli stati membri dell'Unione Europea a esclusione della Gran Bretagna e della Repubblica Ceca, a far scendere il debito pubblico, nel giro di vent'anni, sino al 60% del Pil. Per la cronaca, oggi siamo attorno al 133%.

Di fatto il c.d. fiscal compact non è che la copia carbone delle modifiche costituzionali introdotte in Germania nel 2009, in materia di rapporti finanziari tra la Federazione e i länder. All'interno dei confini tedeschi è una norma che ha due facce. Ok, i länder devono ridurre il debito. Ok, per farlo devono tagliare manco fossero delle sartine. Però dall'altra parte c'è una politica fiscale comune e uno Stato che emette bund, i cui proventi tornano ai territori in risorse e servizi, redistribuiti dai länder più ricchi a quelli più poveri. Funziona, insomma: i länder sprecano meno, lo Stato centrale può giovarsene riuscendo a raccogliere denaro a un costo molto basso.

Possono raccontarcela come vogliono: la verità è che è stata la stessa Germania a spingere affinché questa sua normativa venisse adottata, pari pari, anche a livello europeo. Scelta che ha generato obiezioni più che legittime: la Germania fa il fiscal compact perché ha una politica fiscale comune, un fondo di perequazione che distribuisce risorse da quelli più ricchi a quelli più poveri, una banca centrale che emette debito pubblico. L'Europa non ha niente di tutto questo. Perché allora dovrebbe fare il fiscal compact? Risposta: per arrivarci.

In pratica, i tedeschi ci stanno insegnando come si costruisce una federazione. Primo passo: obbligare tutti i Paesi europei a rimanere entro determinati vincoli di bilancio. In questo modo si impone di fatto a ogni Paese - secondo passo - di tagliare gli sprechi e fare riforme che consentano di generare meno costi - e meno fabbisogno per il pubblico - più produttività, quindi, nel tempo, un rapporto deficit/Pil migliore, sia in virtù di spese più basse, sia di un prodotto interno lordo che cresce.

Il terzo passo è quello compiuto da Mario Draghi lo scorso 22 gennaio. Un passo che gli economisti chiamano “quantitative easing”. In pratica, la Banca Centrale Europea compra, attraverso le banche centrali nazionali, i titoli di debito dei vari Paesi, pagandoli attraverso l'emissione di nuova moneta. Gli effetti sono due: l'aumento della base monetaria, in teoria, dovrebbe produrre quel po' di inflazione necessario a far ripartire la domanda interna e, giocoforza, a far crescere il Pil. Il secondo effetto - che più o meno tutti abbiamo sottovalutato, a dire il vero - è che la Bce, sempre attraverso le banche centrali nazionali, si mette in pancia un bel po' di debito pubblico dei diversi Paesi europei.

Da qui in poi è terra ignota. Però possiamo provare a immaginare. Ad esempio, che se il debito progressivamente si riduce, per effetto del fiscal compact, e altrettanto progressivamente finisce nei caveau di Francoforte per effetto del Quantitative Easing, vorrà dire che, nel giro di qualche anno, buona parte dei debiti pubblici nazionali sarà nelle mani della Banca Centrale Europea. Non dei cittadini dei vari stati, non dei mercati, ma di un’istituzione sovranazionale continentale. Quella che stampa i soldi, peraltro. E che li usa per comprare i nostri debiti pubblici.

È chiaro che quel debito non esiste se non come arma di pressione politica, come il caso greco ha dimostrato solo qualche mese fa. Una pressione politica sufficiente, tuttavia, ad abbattere le reticenze tedesche sugli eurobond, obbligazioni europee con un rendimento e una rischiosità che sarebbe la media tra quella dei paesi più solidi, come la Germania, e quella dei paesi che lo sono di meno, come l’Italia.

Oggi la paura dei tedeschi è che, con gli eurobond, paesi come l’Italia non avrebbero più alcun incentivo a fare le riforme necessarie alla progressiva riduzione del debito pubblico. Con la Bce a fare da cane da guardia - magari, aggiungiamo perfidi, con un presidente tedesco a fare da cane da guardia, quando nel 2019 finirà il mandato di Mario Draghi - le cose potrebbero cambiare.

Con le risorse raccolte attraverso l'emissione di eurobond si potrebbe davvero fare l'Europa: reti infrastrutturali continentali, integrazione delle reti energetiche, magari pure un sistema comune di difesa e di controllo dei confini. A quel punto, una politica fiscale comune e un welfare comunitario verrebbero quasi da sé. Così come la necessità di togliere il potere di realizzare questa nuova Europa federale ai burocrati per ridarlo agli elettori. Se davvero vogliamo gli Stati Uniti d'Europa, altre strade non ce ne sono.