Il mondo non vive nessuna eclissi del sacro. Tranne che in Europa occidentale, le manifestazioni di massa della religiosità appartengono naturalmente al discorso pubblico. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II non sono due nuovi santi, ma due rappresentanti di quella "santità nuova" di cui la Chiesa, come scrive Simone Weil, ha sempre bisogno per parlare al proprio tempo.

Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII grande

Mi è stato chiesto alcuni giorni or sono di scrivere un contributo per Stradeonline sulla canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Un tema così impegnativo ha purtroppo sortito l'effetto di rendermi incapace di mettere nero su bianco pensieri di senso compiuto, sebbene i pontefici ascesi agli altari lo scorso 26 aprile abbiano da sempre costituito per me figure di riferimento e oggetto privilegiato di studio. Fortunatamente, ho ricevuto una mail da parte dell'amico e collega tedesco Thomas H., sociologo delle religioni, che - da studioso ateo e liberal - ha voluto recarsi a Roma per assistere alla cerimonia con propositi assolutamente laici legati ad una prossima ricerca. Vi propongo perciò, tradotta, la sua lettera, confidando nella sua e nella vostra comprensione.

Da: xxx
Date: 02 maggio 2014 23:49
Oggetto: xxx
A: Vincenzo Pacillo;

Caro Vincenzo,


Prima di tutto spero che questa mail ti trovi bene.
(...)


Come ti dissi, ho deciso di trascorrere la giornata del 26 aprile scorso in mezzo ai pellegrini venuti a Roma per la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Da ex membro della Chiesa evangelica riformata (festeggerò nel mese di ottobre la mia uscita da quella confessione e il mio ingresso nell'ateismo militante) non mi aspettavo granché né dalla cerimonia né dalla variegata massa di fedeli entro la quale mi sono nascosto: anzi, sull'aereo ero piuttosto infastidito dall'idea che nel XXI secolo qualcuno potesse ancora parlare di santità. Se c'è un valore che la nostra epoca ci impone di portare avanti con priorità assoluta è quello dell'uguaglianza: non suona maledettamente fuori tempo immaginare che ci sia qualcuno così disuguale agli altri per carisma da diventare oggetto di venerazione?

Poi ho ripreso in mano Camus, La Peste, e quel passo in cui Tarrou confida "Quello che mi interessa è di sapere come si diviene un santo. Si può essere un santo senza Dio? È il solo problema concreto che io oggi conosca: essere un santo senza Dio". Tarrou non è Camus, naturalmente, ma il modo in cui Camus vede uno degli aspetti possibili della sacralità della dimensione dell'umano: cercare la santità significa cercare l'obbedienza all'imperativo categorico di dare tutto se stesso per gli altri.
 Allora che differenza c'è tra Tarrou, Giovanni Falcone e i due papi canonizzati? In fondo tutti costoro hanno dato se stessi per un ideale di giustizia che, a loro modo, ritenevano fondamentale per salvare gli altri: tutti costoro sono stati ugualmente fedeli a un diverso modello etico che ha comunque, in ogni caso, privilegiato gli altri.


Eppure per i due papi le cose sono diverse. La loro santità è una santità di riflesso, che non deriva da un esercizio di libero arbitrio, ma da una chiamata a rappresentare l'immagine di Cristo: perciò, in fondo, la loro non è stata una scelta - come quella operata da Tarrou o da Falcone - ma un estremo gesto di obbedienza. Per questo, caro Vincenzo, ho visto per la prima volta la santità cristiana non come un'enfatizzazione della diversità, ma come un appello alla normalità. Per ogni cristiano dovrebbe essere normale essere santo.
 In questa prospettiva ho provato a leggere anche il clamore della cerimonia. Non sono partito con l'idea di chiedermi "cosa è questo per tutta questa gente?". Oggi, solo perché in Europa occidentale cala il numero di credenti e praticanti, si è convinti che tutto il mondo sia inserito in una grande cornice immanente, caratterizzata da un'eclissi del sacro, quando invece è questa parte del nostro continente a rappresentare un'eccezione. In realtà le manifestazioni di massa della religiosità sopravvivono. E quella di Roma - per uno studioso come me - ne rappresenta una tra le altre.


La cosa che ho compreso stavolta è che i cattolici onorano pubblicamente la santità perché la santità ha una dimensione pubblica, onnicomprensiva, che non può essere vissuta solo nel privato della propria camera. Quello che molti amici liberali non comprendono è che è assurdo far ripiegare il cristianesimo in una dimensione esclusivamente privata, perché - come scrive Péguy - in materia di santità pubblico e privato si confondono, si uniscono, esattamente come la temporalità - nella visione cattolica - è congiunta alla spiritualità. Essere proclamati santi significa anche dover soffrire un'ostensione pubblica del proprio privato, capace di alimentare la fiamma dell'obbedienza (ho pensato a Giovanna d'Arco, certo).

Poi ho letto chi parla di propaganda, di eccessiva enfatizzazione delle virtù dei papi del Novecento e ho pensato che costoro dimenticano le parole di Péguy (tutti hanno avuto un processo d'appello, tranne Péguy, condannato all'oblio perpetuo da Benda), dimenticano le vicende di Cîteaux, Cluny, Vézelay. Perché il legno del cattolicesimo muore se non trova la forza per ricominciare sempre, ogni volta: se non si entusiasma sempre in un nuovo fervore che rappresenta l'olio nella lucerna. Ricominciare sempre, rimanifestare con enfasi il ri-accadere della grazia nel mondo.

Un'ultima considerazione. Ho letto l'articolo che mi segnalavi. La tesi è che la canonizzazione contemporanea di Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII, officiata da due papi molto diversi, sia il tentativo che la Chiesa compie per riunificarsi in un'idea pacificata del Concilio Vaticano II. L'autore ha diverse ragioni, ma gli manca, secondo me, la chiave di lettura di Simone Weil. Ricordi? "Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch'essa senza precedenti (...) Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede per inventare la meccanica o la fisica; una santità nuova è un'invenzione più prodigiosa".

Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno incarnato due geni della santità nuovi per il loro tempo e il loro spazio; e così Benedetto e Francesco incarnano due geni del modo di essere pontefici, ciascuno dei quali è stato e continua ad essere nuovo nel tempo e nello spazio in cui si è manifestato. Vino nuovo in otri nuovi, con buona pace di chi ritiene che la Chiesa sia sempre uguale a se stessa.