In un articolo precedente avevo evidenziato tre gravi problemi che un ipotetico social media manager al servizio della politica deve affrontare per cercare di guadagnare consenso oltre una certa soglia. Li riassumo: catturare un pubblico sempre più distante da sé, tenerlo distinto dal pubblico già conquistato ed estendere la comunicazione oltre il mondo digitale. Sono problemi rilevanti, e come dicevo forse irrisolvibili: ma tendono in ogni caso a essere aggravati dall’uso di un “testimonial unico” per la comunicazione politica.

La scelta più frequente per un leader con un consenso alto sembra essere infatti quella di puntare su un rapporto diretto con l'elettore, fatto di ospitate in televisione, di interviste sui giornali, di video in diretta su Facebook e di una presenza sempre più continua, martellante e invadente, spesso curata nei minimi dettagli. Questa via sembra essere un'autostrada da imboccare a tutta velocità: ma si è finora sempre trasformata in un vicolo cieco, in cui si sono schiantati tutti i leader oltre il 30%. E ci hanno messo sempre meno a farlo, man mano che i social assumevano un ruolo più centrale nei loro strumenti di comunicazione. 

È solo un effetto del voto liquido, già ben analizzato e compreso dagli studiosi di politica? Non credo: mi pare di intuire che ci sia una questione forse troppo evidente, come la lettera rubata di Poe, perché qualcuno ci abbia veramente fatto caso. 

Torniamo alla tecnica che viene sfruttata con una certa spregiudicatezza dai social media manager: insieme alla segmentazione uno dei meccanismi principali di diffusione delle notizie virali (lo ripeto ancora una volta: al di là del fatto che siano fake o real news) è la diffusione attraverso decine o centinaia di profili e pagine, ognuna con propri pubblici, solo in parte sovrapposti, ai quali pervengono pezzi del messaggio complessivo: ognuno di questi pubblici ha un proprio interesse primario, in una certa misura identificabile, e quello viene solleticato e nutrito. Dove la corsa è a due, come nel caso di un referendum o nel caso di una scelta tra due candidati, quello spostamento dell’attenzione su temi marginali per il grande pubblico ma centrali per piccoli pubblici può fare la differenza nell’orientare il voto.

E ripetiamolo: la segmentazione può sembrare un dettaglio, uno sforzo inutile, ma non è così. Quando arrivano messaggi di tipo diverso dalla stessa pagina o dallo stesso personaggi, i vari pubblici si trovano davanti contenuti che sembrano indicare priorità solo parzialmente coincidenti, e così diminuisce l’efficacia complessiva. Per continuare a essere virali, i messaggi devono suscitare reazioni, ed è più facile ottenerle se si segmenta il pubblico e gli si fornisce solo ciò che può coinvolgerlo di più; ma al punto in cui si trova il nostro Morisi immaginario anche la segmentazione va in bambola: avendo bisogno di sempre più elementi per evitare che i messaggi finiscano a un pubblico eterogeneo, quando arriva vicino alla soglia che ho indicato comincia a faticare, sia nel non ripetere lo stesso messaggio che nell’evitare incoerenza tra i vari messaggi. 

Facebook e tutti gli ecosistemi digitali non risolvono nessuno dei tre problemi indicati: il social manager ha bisogno quindi di un nuovo strumento su cui capitalizzare online e offline, e l'unico che sembra rimanere disponibile è un testimonial con cui gli elettori possano identificarsi, nei cartelloni, nelle foto sui settimanali popolari, nelle trasmissioni tv. Si usa di tutto per raggiungere questo obiettivo, perfino le foto private (a volte posate), e c'è un uso ossessivo del vestiario: dal doppiopetto di Berlusconi alla felpa e alle divise di Salvini, passando per la camicia bianca e il giubbotto di pelle di Renzi (o quello di Di Battista in scooter), la politica oggi è davvero un fenomeno "di costume”. Ma in realtà il testimonial unico è forse la peggiore risposta possibile a questi problemi, quella che può innescare la reazione di rimbalzo oltre il 30%.

Perché quando al meccanismo dei piccoli segmenti si affianca o si sostituisce il "testimonial unico", a prescindere da ciò che dirà, si crea in molti casi un cortocircuito tra la comunicazione personalizzata (digitale) e quella rivolta alla massa indistinta, in modalità broadcasting. Finché la comunicazione politica si è basata sul broadcasting come modalità prevalente o esclusiva (cioè grossomodo dalla "discesa in campo" di Berlusconi al 41% di Renzi) la velocità di decadimento oltre la soglia magica è rimasta relativamente lenta. Ma con l'era dell'ecosistema digitale il broadcasting può essere usato solo per messaggi ipersemplificati, inadatti a sistemi politici multipolari e a questioni complesse.

Per dimostrarlo guardiamo ai casi in cui la combinazione digitale/broadcasting ha funzionato al meglio. Perché per l’elezione di Trump e per la campagna a supporto della Brexit è andata bene, e perché entrambe le situazioni godono ancora di largo supporto a distanza di tre anni? Perché il messaggio in broadcasting che sovrasta e dà il tono a tutta la comunicazione digitale è chiaro, univoco: “Make America Great Again”, oppure “Leave the EU, è una formula di cristallina semplicità ma in fondo un contenitore vuoto di significato. Erano i pubblici che venivano raggiunti dai singoli messaggi a riempirlo a seconda delle proprie attese, sollecitate e nutrite da decine e centinaia di pagine e account. E la scelta era chiara: o di qua, o di là (dove il “là” non ha mai capito le regole del gioco, ed era quindi incapace di sfruttare le minime falle concesse dalla strategia quasi perfetta dell’avversario).

Ma cosa succede nel caso italiano, con Morisi a sostegno di Salvini da una parte e la Casaleggio per il Movimento Cinque Stelle dall’altra? Che le condizioni non sono quelle ideali per una vittoria schiacciante tramite questi mezzi: questi mezzi, come detto, incidono fino alla soglia magica che abbiamo indicato, cioè fin dove possono funzionare al meglio con piccoli pubblici, da portarsi dietro attraverso messaggi mirati. Passato quel valore avviene una cosa poco intuitiva: quando i voti alle elezioni cominciano infatti a veleggiare oltre il 30%, per mantenere alta la soglia dell’attenzione costui sarà costretto a comunicare con una certa costanza, senza diventare eccessivamente ripetitivo ma anche continuando a tenere una certa coerenza. Questo è stato finora il suo pane quotidiano, il metodo con cui ha raggiunto le vette: dove può essere la difficoltà? Ma con quei voti ora si trova anche in una situazione con responsabilità di governo in cui viene continuamente sollecitato a comunicare da giornalisti, interlocutori istituzionali e sociali, su temi che spesso non può scegliere in autonomia.

E qui cominciano i dolori, per il nostro ipotetico leader che ambisce a governare per molti anni e con largo consenso: perché a un certo punto si verifica inesorabilmente un problema di conflittualità, o tra le scelte che fa e il suo opportunistico messaggio elettorale precedente oppure tra gli interessi dei singoli pubblici che ha fin lì sapientemente coltivato. Caso esemplare del primo tipo è il Movimento Cinque Stelle di fronte alla TAP e all’ILVA; paradigmatico del secondo è l’insofferenza verso la deriva sudista della Lega, che trapela tra i dirigenti storici del Nord Italia, e la speculare resistenza del Sud all'autonomia per le regioni del Nord. A quel punto per cercare di sfondare il tetto di cristallo di solito si commette l’errore esiziale: si rilancia, cocciutamente convinti che la soglia del 30% non sia strutturale e si possa raddoppiare il risultato raddoppiando gli sforzi. 

Peggiorando in questo modo l’effetto resistenza, sia che si insista sul proprio nucleo più stabile, sia che si vada verso i nuovi pubblici: perché la visibilità è talmente alta che qualsiasi messaggio finirà necessariamente amplificato sia attraverso il proprio social ufficiale (perché ormai si ritiene il 30% una base consolidata e si possa fare a meno della segmentazione, sbagliando analisi su come sono arrivati quei voti e quanto siano mobili) che attraverso gli altri mass media tradizionali (giornali e televisioni).

Certo finora, anche per una certa incapacità delle opposizioni di interpretare seriamente il proprio ruolo di alternativa al governo e per una capacità innegabile di cambiare continuamente temi e bersagli, il testimonial unico (in particolare di uno dei due partiti al governo) è sembrato inarrestabile: ma se ho letto bene il percorso fin qua, siamo entrati solo da pochi mesi nel periodo “turbolento”. E dunque anche se la Bestia sta continuando ad avvelenare il clima, anche se la Casaleggio sta cercando ancora lo spin giusto per la propria comunicazione, il finale di questa storia non è scritto e va guardato con attenzione: perché può rivelarsi il tallone d’Achille su cui inciamperà ogni nuova “gioiosa macchina da guerra”.