Nella mia analisi di qualche tempo fa sul tetto di cristallo del 30% mi permettevo il lusso di ignorare il ruolo che hanno le fake news oltre quella soglia; credo sia il caso di ritornarci su e approfondire il tema. Ritengo infatti che ci sia un limite invalicabile nell’uso di messaggi virali per guadagnare consenso elettorale su temi divisivi: e cioè che (fake news o no) man mano che circolano e ne vengono pubblicati di nuovi la loro contraddittorietà complessiva viene sempre più chiaramente percepita dal vasto pubblico.

Attenzione: non sto dicendo che a un certo punto gli elettori comincino a distinguere le bugie dalle informazioni veritiere; è piuttosto che oltre una certa soglia e in determinate condizioni lo stimolo non fa più effetto, anzi diventa controproducente. Per spiegare questa mia idea è però indispensabile una breve spiegazione tecnica e culturale di cosa siano la segmentazione e il revenue management, e di come queste tecniche di marketing abbiano influito nella nostra vita negli ultimi vent’anni.

Come molti sapranno per esperienza (per il semplice fatto di essere stati clienti di una compagnia aerea, di un hotel o di un tour operator) da tempo il prezzo praticato non è più una costante valida per tutti, ma una variabile che dipende da un certo numero di fattori. Quando siamo in fila a un qualunque check-in, ormai l’unica cosa di cui si può essere certi è che nessuno ha pagato lo stesso prezzo per il proprio viaggio o la propria camera.

Dite che è ovvio? Pensateci bene: non è sempre stato così. C’è stato bisogno di un mutamento normativo (la liberalizzazione dei prezzi) ma anche e soprattutto di uno culturale (l’accettazione da parte degli utenti che prezzi differenziati fossero un vantaggio anche per loro, non solo per la società di cui erano clienti). Certo ci sono state distorsioni al limite della legalità (e a volte anche oltre, come riconosciuto da diverse sentenze) con spese aggiuntive nascoste e prezzi civetta introvabili: ma, proprio perché c’è stato un cambiamento culturale, queste pratiche scorrette sono state sanzionate e in alcuni casi normate con maggiore chiarezza, senza tornare però all’epoca delle tariffe uniche.

Per ottenere lo scopo di differenziare i prezzi per aumentare i clienti e i profitti, il mercato viene diviso in tanti gruppi, più omogenei al loro interno che rispetto agli altri gruppi (in gergo tecnico, viene appunto “segmentato”): per ogni segmento vengono poi studiate regole ed elementi per definire l’offerta e il prezzo migliore, cioè quello in grado di massimizzare il profitto (revenue management). Per fare un esempio con due segmenti noti a tutti, le famiglie con bambini e gli uomini di affari quando viaggiano hanno esigenze proprie di orario, di comfort e di flessibilità; per soddisfarle pagano prezzi molto diversi, anche richiedendo optionals che l’altro segmento non sarebbe interessato a ricevere nemmeno se fossero gratis.

Come spesso accaduto in passato anche questa rivoluzione culturale ha preso piede grazie a una tecnologia abilitante, in precedenza non disponibile: nel caso specifico, Internet. La rete ha permesso infatti a ciascun utente di scoprire da sé il prezzo per la propria combinazione di fattori, senza praticamente alcun costo marginale per la società che offre il bene o il servizio. Non sarebbe possibile, oggi, un sistema come quello delle compagnie aeree low cost se la loro distribuzione fosse affidata unicamente alle agenzie di viaggio (come avveniva fino agli anni Novanta): il tempo necessario all’utente medio per individuare il giusto equilibrio tra la sua domanda e il prezzo che la compagnia offre per un tragitto non è sostenibile per un singolo agente di viaggio, che di norma ha molti clienti da servire e che su queste tipologie di biglietti ha un margine molto basso rispetto al lavoro che deve svolgere al posto del cliente. È il self service che fa davvero la differenza.

Questa rivoluzione ha cambiato molti settori, non solo quello dei viaggi: quando sottoscriviamo un servizio online, quando scegliamo i pacchetti del nostro abbonamento televisivo, quando cambiamo operatore telefonico stiamo comparando prezzi, vantaggi e offerte (ed è così vero che spesso ci affidiamo a siti che fanno per noi la comparazione tra le offerte). Se tutto questo vi sembra banale e non capite cosa c’entri con la comunicazione politica, passiamo a guardare cosa succede sul social network di riferimento, cioè Facebook. Se pensate che l’orientamento politico lo facciano i tweet o le foto su Instagram, vi dico che secondo me in Italia non è così: il confronto vero, di massa, è sul social di Zuckerberg, ed è lì infatti che vengono rilanciati molto spesso anche i messaggi nati sugli altri social media. Facebook ci propone una timeline di contenuti e inserzioni personalizzata a seconda di molti fattori, e lo stesso avviene per quanto riguarda la pubblicità. Il fatto che un algoritmo scelga al posto nostro cosa mostrarci non deve trarre in inganno: si basa comunque su regole di preferenza che deduce dalle nostre interazioni, dai siti che abbiamo visitato o più in generale da cosa abbiamo fatto online (sia sulla sua piattaforma che altrove). Siamo in una forma di inconsapevole self service informativo, che rende ognuno di noi automaticamente segmentabile per chi è interessato a raggiungerci con la propria comunicazione.

C’è però una piccola questione (veramente molto tecnica, ma è alla base del funzionamento del revenue management) che impedisce strutturalmente alle forze politiche di andare oltre una certa soglia (in alcune condizioni): i segmenti devono essere chiaramente distinti tra loro rispetto alle offerte (o ai messaggi politici, nel nostro caso). Per tornare al nostro esempio, l’offerta per gli uomini d’affari si basa sul presupposto che non accettino le restrizioni più adatte alle famiglie, e viceversa; un viaggio andata e ritorno in giornata (perfetto per chi deve firmare di persona un costoso e delicato contratto e poi rientrare) costa di solito molto di più di uno che includa il fine settimana (tipicamente affollato da turisti). Le offerte che fanno aumentare il guadagno delle compagnie sono quelle che acquisiscono nuove tipologie di clienti invece di cannibalizzare quelle già esistenti.

Anche nella comunicazione politica elettorale i messaggi che si rivelano vincenti e virali, quelli che massimizzano i voti, fanno leva sui temi più sensibili per ciascun segmento in cui viene diviso l’elettorato, a patto però che i segmenti restino separati. Ad esempio, chi fatica a raggiungere uno stipendio di 800€ al mese in una cittadina senza grandi problemi di sicurezza pubblica sarà più disposto ad ascoltare messaggi sui privilegi dei migranti ("35 euro al giorno per stare in hotel!") o della classe politica; mentre chi riceve un buono stipendio, ma vive in una città con una percezione di insicurezza nelle strade, sarà più facilmente attento a cosa si dice sugli episodi di delinquenza e sulla necessità di difendersi da sé (“la difesa è sempre legittima!”).

Questa attenzione selettiva, se sfruttata a dovere, è quell’elemento che permette alle campagne pubblicitarie politiche più spregiudicate di vincere la battaglia del consenso, soprattutto dove si tratta di uno scontro a due, "o di qua o di là": come è successo con la Brexit e con Trump, per fare due esempi in cui le condizioni per questo tipo di strategia c’erano e hanno permesso il successo di chi l’ha perseguita. Ma anche, per venire a casa nostra, con il referendum costituzionale del 2016: secondo i sondaggi gli elettori erano largamente favorevoli ai singoli provvedimenti, ma rigettarono la proposta di riforma complessiva, ognuno per le proprie ragioni, dando singolarmente maggior peso alle cose che non andavano bene rispetto a quelle che invece convincevano di più.

Cambia poco che fossero informati seriamente (come sicuramente possiamo considerare Zagrebelsky), vittime di qualche fake news (come molti elettori che si formarono un’opinione sui social in pochi giorni) o politicamente interessati al risultato (come su sponde opposte furono D’Alema e Salvini): il fatto è che singoli pezzi marginali di elettorato si ritrovarono per ragioni diverse dalla stessa parte della bilancia, portandola a pendere in senso contrario a quello che si poteva pensare secondo alcuni sondaggi.

Ma quali sono le condizioni elettorali italiane, al di fuori del caso del referendum? Intanto non ci troviamo di fronte a una scelta secca, e gli elettori possono orientarsi tra diverse possibilità: il che vuol dire, per esempio, che alcuni messaggi possono andare ben oltre le intenzioni di chi li comunica, spostando il voto di chi li ascolta non su di sé ma su altri attori (con posizioni più chiare sul punto specifico oggetto del messaggio). Ed è un problema che affrontano soprattutto i partiti più grandi, quelli con almeno il 20% dei consensi: perché per andare a pescare ben oltre quella soglia devono entrare nel recinto di partiti sempre più distanti da sé, finendo per diluire la credibilità del proprio messaggio principale senza riuscire a convincere fino in fondo i sostenitori più radicalmente attaccati a quel tema. Che è poi quel che succede alla Lega da quando la strategia di crescita “sudista” non ha sfondato alle elezioni locali, alienandosi alcuni consensi al Nord, o al Movimento Cinque Stelle nel momento in cui ha dovuto cercare sintonia con gli imprenditori e sostegno da pezzi di establishment, invisi al proprio elettorato principale.

C’è poi il problema di cui stiamo trattando in questo articolo: man mano che si cercano segmenti da aggredire con nuovi temi, oltre una certa soglia diventa sempre più difficile distinguerli e tenerli distinti da quelli già conquistati. Anche su Facebook, che permette di mirare pezzi di elettorato molto specifici, dopo un po’ si finisce per rivolgersi alle stesse persone cui si è lanciato un messaggio molto azzeccato inizialmente (che le ha attratte e convinte) con altri messaggi che non c’entrano niente o che addirittura sono in contrasto con determinati valori (di nuovo, ad esempio, la Lega con l’uso spregiudicato del Vangelo o il Movimento Cinque Stelle con la difesa di persone sottoposte a indagini solo quando fanno parte dei propri ranghi e solo per alcuni casi).

In un certo senso, vale l’inverso di quello che succede nel marketing: per un'azienda costa molto più acquisire un nuovo cliente che fidelizzarne uno dei vecchi, mentre per i partiti è vero il contrario, ci vuole meno ad attrarre consenso all’inizio di quanto ce ne voglia a mantenerlo in seguito.

Infine c’è la difficoltà di andare a incrociare quell’elettorato che per vari motivi non viene raccolto dalle campagne pubblicitarie su Facebook, e non è affatto irrilevante in un Paese elettoralmente vecchio e relativamente poco digitale in molte delle sue scelte quotidiane (anche per il suo consumo di informazione): le casalinghe, i pensionati dei piccoli paesi, i giovani (che, contrariamente a quanto si può pensare, considerano Facebook un social “da vecchi”). E per quei pubblici è ancora più difficile trovare mezzi capaci non solo di individuare le parole chiave da usare (“la Bestia” di Morisi funziona solo online), ma anche mantenere distinti messaggi e destinatari.

Sono problemi che finora non hanno trovato una soluzione: ma forse una soluzione non ce l’hanno, essendo un limite strutturale della situazione che ho cercato di illustrare. Ora sta agli spin doctor di governo (purtroppo pagati dai nostri soldi di contribuenti) dimostrare il contrario.